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Cose che ho ascoltato a gennaio

Qualche giorno fa ho commentato un Substack di DLSO (una delle poche cose di Instagram che mi mancano da quando l’ho abbandonato) sui dischi usciti la scorsa settimana. Scrivevo: «Se tutto il 2025 va com’è andato gennaio, io non so se arrivo alla fine dell’anno». DLSO mi ha risposto: «Gennaio è sempre un mese molto carico, se già vedi questa ultima settimana i volumi sono diminuiti. Vediamo febbraio». Il punto, però, non era la quantità, ma la qualità. Sapevamo che a gennaio sarebbero usciti certi dischi, ma non sapevamo che ci avrebbero colpito così tanto. Scrivo quindi a Matteo – padrone di casa, qui su bva – perché avevamo concordato che avrei recensito uno di questi album. Gli dico qualcosa del tipo: «So che avevo promesso quella recensione, ma gennaio è stato incredibile nel complesso. Che ne dici se scrivessi un pezzo sull’andamento dell’intero mese?». Lui accetta, anzi, rilancia: perché non farlo ogni mese? Vediamo, Matteo. Vediamo se trovo il tempo e se i prossimi mesi saranno all’altezza di gennaio. Nel frattempo, partiamo dalla fine. L’ultima settimana del mese ci ha portato Hurry Up Tomorrow di The Weeknd, un album massimalista per durata e sound, che sfiora costantemente il rischio di saturazione senza mai oltrepassarlo. Ogni volta che questo disco mostra i muscoli, infatti, lo fa con sostanza, intrecciando i sintetizzatori dell’elettronica e le batterie dell’R&B contemporaneo in un viaggio sonoro che, senza timore di esagerare, definirei di proporzioni colossali. Concedo ai detrattori il fatto che brani come Give Me Mercy e Red Terror non siano originali quanto gli altri e non si amalgamino perfettamente al concept dell’album, ma si tratta di un abbassamento quasi impercettibile della qualità complessiva. Dopo un’ora e ventiquattro minuti di disco, la sensazione è la stessa che ho avuto lo scorso anno con Cowboy Carter di Beyoncé: che la partita fosse già chiusa, che fossimo già davanti all’AOTY. Ma ovviamente spero di sbagliarmi. Andando indietro nel mese, troviamo EUSEXUA di FKA twigs, il disco più a fuoco della sua carriera. Un equilibrio quasi perfetto – e tra qualche riga ci torniamo, su quel “quasi” – tra la sperimentazione di LP1 e MAGDALENE, la leggerezza di CAPRISONGS e un orientamento pop che la cantautrice britannica non aveva mai mostrato in modo così chiaro. L’equilibrio, per l’appunto, quasi perfetto si spezza con Childlike Things, brano in collaborazione con North West, figlia undicenne del matto con i soldi Kanye, che vuole evidentemente essere un momento di leggerezza dopo tanto sforzo nel tenere insieme pop e sperimentazione, ma che, oltre ad adombrare la successiva Striptease – una delle migliori canzoni del disco –, finisce per togliere credibilità al percorso musicale costruito fino a quel momento. Un dettaglio che comunque non mina la nuova riconoscibilità acquisita da twigs nello scenario musicale contemporaneo grazie a questo disco: non più una copia un po’ sbiadita di Björk, non più un’artista che gioca con sonorità contemporanee, ma l’interprete di un pop che non si dà per scontato grazie alla sperimentazione e di una sperimentazione che trova una struttura precisa grazie al pop. Andiamo ancora a ritroso per incontrare Balloonerism di Mac Miller, un disco postumo perfettamente rappresentato dal suo stesso titolo: dal primo all’ultimo brano, infatti, si ha la sensazione di essere all’interno di un palloncino che fluttua verso l’alto – un’immagine che potrebbe suggerire leggerezza, se non fosse per il fatto che in un ambiente chiuso come un palloncino non si respira. In questo senso è estremamente rappresentativa una coppia di brani: in Excelsior sembra di poter volteggiare tra le nuvole grazie alle note di un pianoforte delicato e alla voce divertita di Mac, ma subito dopo, in Transformations, quello stesso pianoforte diventa ricorsivo e nauseante, mentre l’alter ego del rapper, Delusional Thomas, prende la parola per ricordarci che spesso le risposte ai nostri interrogativi si trovano nell’alcol e nelle droghe. In diverse recensioni ho letto che alcuni brani di Balloonerism sembrano abbozzati. Io non ho avuto questa sensazione; piuttosto, mi è sembrato che le cose che Mac Miller aveva ancora da dire e da fare fossero così tante da faticare a stare in un solo disco. Ne è la dimostrazione il fatto che spesso la durata dei brani supera i quattro minuti. Manca, inoltre, la direzione creativa chiara che Jon Brion aveva dato a Circles, l’altro album postumo di Mac, ma in compenso in Balloonerism c’è una creatività senza limiti e l’identità del rapper statunitense emerge con estrema trasparenza. Notevolissima, infine, è Tomorrow Will Never Know, che con i suoi 11 minuti e 53 secondi ci porta ai livelli più profondi dell’anima di Mac Miller, soprattutto grazie a una produzione angosciante e rarefatta dello stesso Mac, che si conclude con la sovrapposizione tra il suono di un telefono che squilla a vuoto e le grida di bambini che giocano. Facciamo un altro passo indietro e, a proposito di angoscia e profondità, arriviamo a Perverts di Ethel Cain, un cambio radicale rispetto alle atmosfere più convenzionali dei suoi lavori precedenti. Il dark ambient si fa sfacciato, affonda le sue radici nell’intero disco attraverso voci e strumenti distorti, ma in alcuni momenti sembra compiacersi un po’ troppo di se stesso: si pensi a Houseofpsychoticwomn, con i suoi 13 minuti e 35 secondi di distorsioni incessanti e gli “I love you” ripetuti fino allo sfinimento. In ogni caso, questo cambio di rotta ha dato un’identità più solida alla musica della cantautrice americana, che più che un album realizza un’esperienza sinestetica: ascoltandolo, la mente genera immagini simili a frame di Eraserhead di David Lynch. Il prossimo passo indietro ci porta a Porto Rico, fonte d’ispirazione per Bad Bunny nella composizione del suo nuovo disco, Debí tirar más fotos. La quantità di riferimenti alla musica tradizionale portoricana non è solo un valore aggiunto di per sé, ma permette anche di apprezzare ancora di più il genere in cui Bad Bunny si muove con maggiore disinvoltura: il reggaeton. La ricchezza sonora che ne deriva rende la sua musica più accessibile rispetto a Nadie sabe lo que

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Quell’intervista a Gazzelle quando era ancora nessuno

Me lo ricordo come se fosse ieri il biennio 2016-2017. All’epoca scoppiò la bolla della “scena indie” italiana – quella che venne poi chiamata a posteriori “ITPOP” – guidato dal successo nazionale di Mainstream, secondo album di Calcutta uscito a fine 2015, e con l’uscita di dischi tra i quali Aurora (I Cani), L’ultima festa (Cosmo), Completamente Sold Out (Thegiornalisti), La fine dei vent’anni (Motta) e Avete ragione tutti (Canova). Proprio i Canova, al loro esordio discografico, erano sotto l’etichetta Maciste Dischi. Nata nel 2014 a Milano, in breve tempo è diventata una delle piccole punte di diamante di questa nuova ondata musicale. Non è un caso se, sempre sotto il loro nome, ha iniziato a muovere i primi passi Gazzelle, nome d’arte di Flavio Bruno Pardini. Quattro LP pubblicati, milioni di ascolti su Spotify (Destri è a quota 135.378.372 al momento di scrivere questo articolo), concerti agli stadi e una partecipazione al Festival di Sanremo 2024. Il piccolo Flavio è un artista dalla solida fama nella nostra Penisola e spesso vedo delle storie su Instagram delle mie conoscenze – parliamo di una fascia d’età tra i 25 e i 30 anni – che vanno a sentirlo dal vivo. Eppure, nessuno di loro saprebbe raccontare la sua ascesa al panorama mainstream nazionale o le sue prime esperienze musicali. Per fortuna c’è il sottoscritto a raccontarvelo perché, come avete capito dall’incipit iniziale, ho vissuto in prima persona la “scena indie” e, di conseguenza, l’arrivo di Gazzelle. Il primo singolo in assoluto, Quella Te del 9 dicembre 2016, non lo vede comparire nemmeno in video, dalla chiara ispirazione vaporwave (anche quella in voga ai tempi), e l’ufficio stampa di Maciste Dischi distribuisce solo foto sfocate, a celare la sua vera identità. Anche il successivo NMRPM mantiene ignoto il volto di Gazzelle, che viene immediatamente etichettato come una versione di Calcutta anni Ottanta. Per chi è anziano come me, si ricorderà la massiccia presenza del cantautore romano nel gruppo Facebook “Diesagiowave”, considerata praticamente la “massoneria dell’indie italiano” secondo Vice Italia. Con Zucchero filato era ormai pronta anche l’uscita dell’atteso album Superbattito e il primo tour nella penisola. Tutti volevano sapere chi fosse ‘sto Gazzelle e l’11 marzo 2017 sarebbe apparso al Vinile, storico locale di Rosà, in provincia di Vicenza, per la seconda tappa del suo lungo viaggio, che sarebbe cominciato al Monk di Roma il 3 marzo. Allora scrivevo a ruota libera per la webzine Feline Wood, tra un impegno universitario e l’altro, e dovevo assolutamente sfruttare l’occasione per intervistarlo. Contatto quindi Alessandro di Sporco Impossibile, ricevo in anteprima il presskit completo di Superbattito e fissiamo l’incontro per il pomeriggio del 3 marzo, nella fase di soundcheck con i Canova. Quando ci incontriamo, Flavio mi è apparso come un normale ragazzo qualunque, che vuole suonare la sua musica e disponibile a farsi conoscere. La mezz’ora passata in compagnia è piacevole e divertente: io, un pivello alle prime armi come “giornalista”, a parlare con lui nella sala fumatori, sprofondati nei nostri rispettivi pouf. La sera vado a sentire il suo concerto, compro il suo disco (senza autografo) e lo saluto dandogli una pacca sulla spalla, augurandogli un “in bocca al lupo” per il resto del tour. Fa ridere perché non avrei osato immaginare la sua crescita di popolarità negli anni successivi e non è un caso se, a distanza di tempo, Superbattito è l’unica cosa che ascolto del suo repertorio. Negli ultimi mesi, ripensando a quest’episodio, ho cercato di recuperare quella famosa intervista, di cui conservo ancora il file audio del telefono. Rileggendola mi è comparso un sincero sorriso di fronte alle domande ingenue poste a Flavio, alle sue risposte e a quello che oggi è diventato: un artista che, nonostante sia uscito dal mio radar e totalmente lontano dai miei gusti, ha saputo costruirsi una carriera di successo. Per l’occasione, ripropongo qui sotto l’intervista completa, ma prima: ve lo ricordate lo zucchero filato? Chi si nasconde dietro il personaggio Gazzelle? Come mai hai voluto mascherare il tuo volto? Dietro a Gazzelle si nasconde Flavio. Ho scelto di non farmi vedere troppo perché, in generale, non mi piace apparire molto e deve essere la musica l’unica cosa di cui si deve parlare. Provieni dal panorama musicale romano e ci sono tanti artisti come Thegiornalisti o Calcutta (anche se più “bolognese”) che sono noti a livello nazionale. Te come hai vissuto questo contesto? Sono contento che stia uscendo un sacco di roba da Roma; per quanto mi riguarda personalmente, non provengo da un contesto particolare, sono di Roma e basta. Quando hai pensato d’iniziare a far musica e da che gruppi o generi trai ispirazione? Da quando avevo sei anni, è sempre stata l’unica cosa che volevo fare e che poi ho sempre fatto, anche quando ero da solo nella mia cameretta, e negli ultimi anni ho formato una band perché volevo qualcosa di completo. Per quanto riguarda da chi prendo ispirazione dipende molto dal periodo, da cosa ascolto in quel momento o dai film che vedo. Permettici una domanda scomoda: molti ti paragonano a Calcutta, ma te ti accosti di più a lui o ne prendi le distanze. Nessuna delle due (e ride ndr). Edoardo lo conosco, ma non credo che sia un paragone fattibile; a me non interessa. Definisci la tua musica “sexy pop”: possiamo dire che prendi ispirazione da quella corrente definita “vaporwave”? Questo per quanto riguarda la parte estetica del progetto: oltre a scrivere e cantare una canzone, mi interesso anche della parte estetica come, ad esempio, i videoclip e non lascio nulla al caso. Molto dipende dalla regista dei video (Paula Ling Yi Sun, ndr) che viene da quel mondo, molto legata all’estetica; parlando con lei e tirando giù idee mi ha fatto scoprire questo mondo e mi è piaciuto, ma in realtà non so cosa sia questo “vaporwave”. Collegandoci con la parte grafica/visual, com’è nato il rapporto con Paula? Con Paula siamo amici da una vita perché ci siamo conosciuti ai tempi del liceo. Non avevo mai

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Italian Party 2024 – Un Festival Emo per Tutti

Genesi non programmatica di un’etichetta discografica To Lose La Track è un’etichetta discografica fondata nel 2005. Da quasi vent’anni scova e produce artisti accomunati da una matrice emo declinata nelle più diverse sfumature. Si va dall’emocore dei Fine Before You Came e dei Riviera al folk di Urali, passando per lo screamo degli Shizune. Un ventaglio di progetti accomunato dalla stessa cultura musicale, intesa non solo come l’insieme delle coordinate sonore e storiche delle band di riferimento del genere, ma come attitudine e approccio alla musica stessa, non destinata a rimanere stampata su disco, ma a prendere vita sera dopo sera, in live che rendano le note un mezzo per azzerare la distanza tra le band e il pubblico. Una musica che produca movimento, sudore, contatto tra i corpi. Una musica che riesca ad essere il collante sociale di una piccola comunità di persone. Sembrano esagerazioni, ma è da questi presupposti che nasce To Lose La Track, che prima di diventare ufficialmente un’etichetta vera e propria è stata per diversi anni un progetto di aggregazione, nato dalla volontà di Luca Benni (il fondatore dell’etichetta) di andarsene in giro per l’Italia a scoprire band e artisti e radunarli tutti insieme su un palco. L’obiettivo era quello di riunire “gruppi che suonano sotto al palco, in mezzo alla gente, e non sopra, di ragazzi intraprendenti che organizzano concerti chiamando tutto quello che c’era di meglio e poco conosciuto in Italia in quel periodo, che stampano dischi, spille e magliette con grafiche fichissime, di pubblico che si muove e fa chilometri per andare ai concerti”. Prima di To Lose La Track nasce quindi l’Italian Party, oggi considerato il festival di riferimento emo in Italia. La prima edizione si tiene nel 2003, prima ancora che una vera e propria scena italiana esistesse. Umbertide, paese natale di Luca Benni e sede dell’Italian Party da più di vent’anni, diventa l’epicentro della scena emo, un posto raggiunto ogni anno da persone sparse in tutta Italia che salgono in macchina o in treno per finire dritti nella Valle del Tevere, in un paesino di circa sedicimila abitanti che a fine luglio (i giorni del festival) sembrerebbe una città fantasma, se non si popolasse improvvisamente di maglie oversize con lunghe scritte, i nomi o i testi delle band che ormai sono la storia dell’emo italiano stampate sopra come manifesti fondativi del genere. È a Umbertide che prendono forma le band emergenti, altrimenti abituate a suonare in garage polverosi o in feste di paese che poco o niente hanno a che fare con la loro poetica; lì che viene presa la decisione di produrre con un certo rigore i loro primi album, finalmente emancipati dall’elettrostatica di musicassette autoprodotte; lì che i Giardini di Mirò e i Fine Before You Came si impongono come capisaldi della scena, capaci di influenzare il suono delle band che verranno. È lì che nascono le band che verranno, figlie delle collaborazioni tra chi sul palco ci suona o da chi ci vorrebbe suonare, una staffetta generazionale generata dalla voglia di perpetuare una certa cultura attraverso la musica. Effetto della veduta d’insieme sulla Valle del Tevere È il primo anno che partecipo all’Italian Party, giunto alla sua ventiduesima edizione. È anche il primo anno in cui il festival non si tiene a Umbertide, ma a Montone, comune adiacente situato a cinquecento metri dal livello del mare e che per questo guarda Umbertide dall’alto. Una tradizione ventennale spazzata via da “UmBEERtide” il festival della birra artigianale organizzato nello stesso fine settimana, e che non credo abbia ottenuto il successo sperato. A Montone gli abitanti sono ancora meno – circa 1500 – e per chi non è arrivato in auto deve essere stato complicato trovare un modo per fare la spola tra i due comuni. Se la scelta di spostare la location ha creato problemi logistici, il festival ne ha sicuramente guadagnato in estetica. Montone è il tipico paesino umbro situato sul cucuzzolo di una collina. Le mura che ne delimitano il confine come le cinta in pietra di un enorme castello, la verticalità delle casette dai tetti spioventi affacciate sulle piazzette del Paese, sui bar e i panifici che accolgono un numero inaspettato di persone, la vista panoramica che offre agli occhi una valle verde e rigogliosa. Tutto questo rende anche l’attesa dei concerti piacevole, dal passeggiare per le viuzze inclinate quasi di quarantacinque gradi al girare per gli stand con una birra in mano, in cerca di una maglietta o una tote bag da acquistare. I palchi del festival sono due: il main stage è situato sul campetto all’aperto di basket comunale, con il palco sotto uno dei due canestri e davanti a una rete da calcio a cinque. La sensazione è di trovarsi a una festa liceale, con le coppiette o gli stanchi stesi sui prati ai lati del campo che fanno da spalti immaginari. Si può assistere ai concerti da ogni angolo del palco, anche dal retro. L’acustica è ottima e le band ben visibili. Il secondo palco è incassato tra le tre mura di una torretta in pietra costruita centinaia di anni fa, nel punto più alto di Montone. È una delle location più suggestive in cui sia mai stato, ma anche, forse, la più limitante: il suono è attutito dalla densità dei corpi sotto il palco, non libero di propagarsi ai lati della struttura, cintata dalle mura in pietra; la visibilità è ridotta subito dopo le prime file, e la terra è coperta di piccoli sassolini ma anche di massi appuntiti su cui è facile cadere, considerato il pogo e lo stage diving a ogni concerto. Ogni band suona in media per mezz’ora, e i concerti si alternano tra il main stage e il palco secondario senza pause tra una performance e l’altra. Questo rende praticamente impossibile non perdersi almeno cinque minuti di una delle band che suona prima o dopo il gruppo a cui decidiamo di dare la priorità: anche in un festival così piccolo e con pochi palchi è

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Primavera Sound 2024: pagellone di fine festival (parte 1)

Dopo tre anni di presenze consecutive al Primavera Sound, l’aria di Barcellona inizia ad esserti familiare: guardi commosso l’immensità reverenziale del Parc Del Forum dal finestrino dell’aereo sul punto di atterrare, predici i tempi di trasporto dall’aeroporto al centro città con più precisione di quanto indichi Google Maps e sai già dove sia lo scaffale con sopra il tuo succo iperzuccherato preferito al Mercadona di fiducia. Ti fermi a pensare a quanto sia cambiato nella tua vita dall’ultima volta in cui hai calpestato quelle scale della metro Besos Mar e ti accorgi di come tutto cambi pur rimanendo tutto uguale. È arrivata quella settimana dell’anno, le preoccupazioni sono rimaste nella valigia che hai deciso di non imbarcare per risparmiare i 50 euro che chiedeva Ryanair. Sei dannatamente felice. L’anno scorso vi ho portato insieme a me con un diario di bordo personale che raccontava passo dopo passo le mie avventure tra gli infiniti palchi che offre il festival. Quest’anno proverò a riassumere tutto in una formula che il Primavera stesso mi ha aiutato ad amare: condividendo esperienze con dei miei amici. Questo articolo sarà scritto a sei mani insieme ad Antonio Genovese e Marco Bisceglie, che avete già avuto modo di conoscere nella breve ma intensa storia di questo sito. Ognuno di noi avrà una manciata di concerti da analizzare e valutare a modo suo. The National (Antonio Genovese) Sì può essere obiettivi nella recensione di un live se il tuo cantante preferito, della tua band preferita, passa buona parte del concerto abbracciandoti, sudandoti addosso, rischiando di seppellirti sotto il suo metro e novantacinque di altezza? Sì può essere obiettivi se ti concede di cantare (urlare sarebbe più appropriato) due o tre versi di England, un posto che è stato parte della tua vita negli ultimi otto mesi? La risposta è sì, perché chiunque fosse presente al Razzmatazz il 29 maggio può raccontare di aver assistito alla miglior versione della carriera dei National. Una band che ormai riesce ad andare col pilota automatico, i cui membri sanno esattamente come interagire tra loro e con il pubblico, senza per questo perdere quella spontaneità e gioia di suonare: Aaron e Bryce Dessner giocano con le loro chitarre come se ne scoprissero le potenzialità per la prima volta, divertendosi ad allungare le code di pezzi incendiari come Smoke Detector, su cui Matt Berninger può continuare a biascicare durante gli oltre otto minuti di canzone. È su di lui che ricadono gli sguardi di tutti. Per quanto i National siano una band corale, in cui tutti i membri partecipano alla fase compositiva e hanno un’impronta riconoscibile, durante il live gli occhi sono inevitabilmente avidi del frontman: lo seguono, lo cercano quando lo perdono in una delle sue scorribande tra il pubblico, dove il suo volto cerca di nascondersi tra le spalle e i capelli delle persone in prima, seconda e terza fila. E nel primo live di questo tour estivo lo fa costantemente, forse proprio galvanizzato dall’ entusiasmo per la prima data (spoiler: l’ho visto una settimana dopo a Roma, e il trasporto è stato lo stesso) o dalla dimensione raccolta della venue. Il paragone con il Matt Berninger di due anni prima, dimesso, quasi impaurito del contatto con i fan, è impietoso. Un live dei National è diventato un momento di catarsi collettiva in cui perdersi e ritrovarsi, un luogo in cui il muro del suono viene abbattuto su pezzi come Abel (molti), o dove ad essere abbattute sono tutte le barriere emotive, come accade sul crescendo baritonale di About Today (forse un po’ pochi a causa di una scaletta che ha prediletto pezzi più muscolari). Il momento finale è dove quella catarsi si scioglie: la band diventa pubblico e il pubblico band per cantare insieme sulle note di Vanderlyle Crybaby Geeks con il microfono posizionato in prima fila in direzione dei fan e Matt, con la giacca nuovamente indosso per il gran finale, a fare da direttore d’orchestra e mimare i versi della canzone. VOTO: 9 The Dare (Matteo Russo) Ormai lo sappiamo: il Primavera Sound è anche un palcoscenico per fare esplodere nuove generazioni di musicisti. E quale esempio migliore dello show in Sala Apolo alle 2 del mattino di Harrison Patrick Smith – in arte The Dare – progetto di un incravattato e sbarbato newyorkese che tanto deve della sua estetica al mio amato James Murphy degli LCD Soundsystem. Nella sua musica c’è l’esaltazione dell’eccesso usando uno stile che si sposa molto bene con il fresco d’uscita BRAT di Charli XCX, per cui ha anche curato la produzione di Guess. Il concerto poi è una bomba: un impero di synth spinti all’inverosimile, drop con bassi esagerati e crowd surfing sul finale su un pezzo in cui urla “They say i’m too f***ing horny, wanna put me in a cage”. Segnatevi il nome, perché di questo ne riparleremo molto presto. VOTO: 8 William Basinski: The disintegration loops (Antonio Genovese) Premessa: replicare un’ opera come i Disintegration Loops è impresa ardua, “specialmente se non sei Max Richter”, come sottolineato da William Basinski, salito sul palco al termine della performance per ricevere il riconoscimento del pubblico. Qualcosa, nella resa live dell’ opera, andrà inevitabilmente persa, tecnicamente o concettualmente. Mi ha sempre affascinato come nell’ opera si arrivasse dal punto A al punto B senza rendersene conto, come le note lentamente sbiadissero o si accattocciarsero su loro stesse di soppiatto, fin quando il nostro orecchio non si fosse accorto della variazione, facendocelo notare. E come questo momento fosse diverso da persona a persona e di ascolto in ascolto. Proprio come quando si prende coscienza di sé stessi in un determinato momento della vita e ci si guarda alle spalle, tirando le somme e domandandosi dov’è andato il tempo. Tutto questo, all’auditorium, non si percepisce: contrarre l’esecuzione in trenta minuti ha compresso il tragitto da A a B, creando piccole tappe intermedie che fungessero da punti di riferimento. Con l’orchestra è andata persa anche l’atmosfera di fondo, che su disco si fa via via più

Primavera Sound 2024: pagellone di fine festival (parte 1) Leggi tutto »

Primavera Sound 2024: pagellone di fine festival (parte 2)

Continua qui il racconto del Primavera Sound 2024 iniziato in questo articolo, nel caso ve lo foste perso. Jai Paul (Matteo Russo) Non si può parlare di Jai Paul senza contestualizzare perché sia stato così importante come nome nella proposta di quest’anno. Jai era un normalissimo ragazzo inglese di origini indiane nel 2011, quando decise di caricare BTSTU su MySpace (sì, quel MySpace): un pezzo che sembrerebbe avveniristico fosse uscito oggi, figuriamoci all’epoca. Il pezzo esplode su internet, gli artisti se ne accorgono in primis, tanto che nomi del calibro di Lorde, James Blake e BROCKHAMPTON dichiararono che senza Jai Paul la loro musica non sarebbe stata la stessa, e dei certi Drake e Beyoncé usarono proprio BTSTU come base campionata in dei loro pezzi. Poi per un furto del suo PC contenente il suo album di debutto e un conseguente leak dello stesso, Jai si distacca come figura pubblica e il progetto sembra destinato a rimanere avvolto nella leggenda. Passano quasi 10 anni e Jai decide di fare il suo primo concerto (!) l’anno scorso al Coachella, con una dimostrazione di affetto da parte del suo pubblico che aveva del commuovente. Passa un anno e una scarsa manciata di altri concerti tra New York e Londra e Jai Paul sbarca per la prima volta in Spagna, in un palco parzialmente svuotato dal fiume di persone che in quel momento era alle prese con la scarsissima voglia di performare di Lana Del Rey. Ne approfitto per infilarmi in prima fila e lì mi ritrovo nel mezzo di un raduno del canale Discord del Primavera Sound, composto da persone chronically online; mi sento a casa. Il concerto poi inizia e non si capisce se il più emozionato fossi io o Jai Paul stesso, ancora evidentemente non abituato a fare musica dal vivo. La sua discografia è ovviamente scarna e consiste quasi solo dell’album leaked che col tempo ha deciso di pubblicare anche in streaming, anche se con molti pezzi non masterizzati. E così si è materializzato il sogno di migliaia di fan che fino a pochissmo tempo prima nemmeno prendevano più in considerazione la possibilità di sentire davanti a loro suonate Jasmine o Str8 Outta Mumbai. Tra il mito e la realtà, c’è la timidezza. VOTO: 7,5 Barry Can’t Swim (Matteo Russo) C’è della poesia nel landscape che regala il palco sponsorizzato da Cupra al parco del forum la notte: una sorta di moderno anfiteatro che da le spalle al mare, con gradinate tanto ambite al pubblico che ci arriva dopo ore senza la possibilità di sedersi. Normalmente il contesto perfetto per ascoltare un concerto rilassante ed evocativo. Di evocativo c’era molto, di rilassante un po’ meno nel set di Barry Can’t Swim, un ragazzo dall’accento spiccatamente scozzese che ha da pochissimo iniziato a suonare sotto questo nome. Le influenze del progetto sono chiare, per alcuni quasi troppo: aspettatevi di vedere in scala un concerto di Fred again.. con qualche strumento sul palco in stampo Caribou. Facile a dirsi, meno facile realizzare un coinvolgimento emotivo simile al fenomeno del momento. Eppure dal vivo funziona benissimo: ti lascia il tempo di ballare senza freni con Kimbara, per farti venire la pelle d’oca con Woman e persino creare un momento gospel a tema concerti portando sul palco l’amico somedeadbeat. L’elettronica sentimentalista ci piace, datecene di più. VOTO: 7,5 Lankum (Antonio Genovese) Quanto si può sperimentare con la tradizione senza che di questa se ne perda l’essenza? A questa domanda provano a rispondere i Lankum, band irlandese nata e cresciuta a Dublino. Il gruppo non si limita a raccogliere e riarrangiare canzoni della tradizione gaelica, ma le fa proprie donandole una forma organica, aderente al loro modo di fare musica: ogni canzone inizia in sordina, con la voce di un membro del gruppo che prende l’iniziativa stagliandosi sul silenzio; lentamente si aggiunge uno strumento dopo l’altro, e poi le altre voci, in crescendo corale che da vita a code incredibilmente lunghe e articolate, con il folk tradizionale che si trasforma quasi in post rock. È un’operazione necessaria e coraggiosa, che aiuta il passato a non sbiadire e a renderlo attuale. Non si tratta di un’ operazione nostalgia perché i Lankum, dal vivo, incarnano alla perfezione lo spirito irlandese trapiantato ai nostri giorni. Sono fieri indipendentisti, ma non si aggrappano soltanto a temi del passato: parlano della frustrazione che provano nell’avere ancora una certa sudditanza psicologica nei confronti del governo britannico, ma discutono anche della questione palestinese apertamente (gli unici tra le band presenti al Primavera a non glissare sulla questione o a non approcciarci soltanto con messaggi simbolici). I temi che le canzoni tradizionali irlandesi dipingono non restano sullo sfondo, ma prendono vita qui ed ora, temi universali che cambiano soggetto. E loro, da bravi irlandesi, riescono a rendere questo passaggio reale, grazie allo storytelling che li contraddistingue. VOTO: 8 070 Shake (Marco Bisceglie) Arriva anche per me l’ultimo giorno di festival e la tabella di marcia prevede, questa volta, di spendere diverse ore a Mordor, al Main Stage.Si inizia subito alle 19:30 per un’artista che pensavo potesse rivelarsi una piccola sorpresa all’interno di questo giorno. Non sono mai stato un grande fan di 070 Shake, ma ho spesso ascoltato le sue hit maggiori come Guilty Coscience, Cocoon e Black Dress.Pronti via e si comincia subito male: l’audio è uno schifo. Ci sarebbero forse parole più adatte a schifo, ma non consone a un articolo. E’ distortisissimo, con bassi che sfondano timpani e tutto ciò che ne consegue e lei neanche se ne rende conto.Accade però un miracolo degno di possibile indagine della fisica moderna: le mie orecchie riescono ad abituarsi all’inferno che proviene dal palco e a filtrare quel di decente che c’è nella performance. Ovvero quasi nulla.Il vero miracolo, cioè che lei effettivamente si accorga che tra autotune, note stonate e acustica non pervenuta mezza folla vorrebbe chiamare il 900 925 555, però non accade. Anzi.Sembra infatti che 070 Shake si sia autoconvinta di essere diventata una via di mezzo tra

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C2C 2023: Racconto dal mondo

Quest’anno il C2C era tappezzato in qualsiasi pannello illuminato del motto IL MONDO, scritto in qualsiasi lingua possiate immaginare. Penso sia un ottimo punto di partenza per raccontarvelo, perché effettivamente la mia prima esperienza al festival torinese è stata una grande finestra verso un mondo che l’Italia fa ancora troppa fatica a inglobare e fare suo. Ma tenete a mente una cosa: C2C non è solo musica. Nella sua installazione ai padiglioni del Lingotto si è messa in scena una vera e propria mostra di arte contemporanea, con spettacoli suggestivi di luci e dei palchi che non hanno niente a che vedere con qualsiasi cosa sia presente nel nostro paese. Vi basti pensare che a collegare i due palchi posti in fiera è stato dedicato un intero padiglione pressoché vuoto e buio, se non per un paio di palle da discoteca e sporadici fasci di luce che le colpivano per creare un effetto scenografico fuori dal comune, a maggior ragione se percorso in solitaria.      Visualizza questo post su Instagram            Un post condiviso da C2C Festival (@clubtoclub) Non è solo musica, ma di musica ce n’è stata. Premetto che ho avuto modo di vedere due serate delle tre principali che erano a disposizione, saltando quella di mezzo con lo show principale di Caroline Polachek e quelli di Marina Herlop, Evian Christ e Overmono; quindi, per ovvie ragioni non potrò parlare di quanto successo lo scorso venerdì. La prima serata si è tenuta alle OGR e, entrando all’orario di apertura, è stato sorprendentemente facile raggiungere le transenne e custodire gelosamente il mio posto per tutte le performance che sarebbero succedute. Già lì ad aspettarci sul palco c’era un set di Reptilian Expo, quota italiana interessante che ha nei suoni glitchati la sua cifra stilistica. Subito dopo è stato il turno di Rachika Nayar, che con un ambient quasi terapeutico talvolta “sporcato” da passaggi più intensi ha catturato l’attenzione di un pubblico che probabilmente la conosceva poco, ma che ora la avrà sicuramente nel proprio radar. È poi arrivato il momento dei nomi di cartello della giornata: prima con i Model/Actriz, band che oserei definire dance punk con forti inflessioni elettroniche. Parlai già di loro nell’introduzione al festival che potete trovare qui. Quello che non potevo immaginare era la totale pazzia che questi ragazzi di Brooklyn riescono a portare sopra (e sotto, col cantante finito in mezzo al pubblico) il palco. Il frontman Cole Haden si è presentato con una bottiglia di vino rosso, un bicchiere di plastica da sagra e un rossetto che si sarà messo almeno tre volte nel corso dello show. Tra urla sguaiate, pose da fascia protetta e una self-confidence raramente vista su un palco, chiunque quella sera alle OGR è rimasto impressionato dalla loro prima apparizione italiana. Loro stessi ci hanno promesso che torneranno presto, e noi non vediamo l’ora. La curiosità era però tutta su una Caroline Polachek che di lì a poco si sarebbe esibita per quello che era probabilmente il suo primo assaggio di dj set con un pubblico così grande. Perché siamo abituati a sentirla cantare quei due album meravigliosi che sono Pang e Desire, I Want To Turn Into You, ma nessuno conosceva le sue capacità in console. Spoiler: non è stato uno show tecnicamente perfetto, anzi era facile vederla in difficoltà nei cambi tra un pezzo e l’altro. Quello che però renderà indimenticabile quell’ora e mezza è stata la contagiosa energia positiva che emanava ad ogni suo movimento, che fosse un ballo – come sempre – aggraziato o un movimento istintivo dettato dall’entusiasmo che il pubblico le restituiva. E la musica che passava in cassa era appetibile per ogni gusto, letteralmente: dai remix delle sue Welcome To My Island e Bunny Is A Rider, a dei passaggi di pura pc music con SOPHIE, passando poi alla DnB di Mura Masa e Hudson Mohawke, fino ad un bellissimo omaggio ai Massive Attack con Teardrop e addirittura le italianissime Ti Sento dei Matia Bazar (a lei molto cari) e PAZZESKA di MYSS KETA e Guè. Pazzia. Il terzo giorno invece è stato teatro di uno degli spettacoli più indimenticabili che abbia mai visto, non tanto per la sua bellezza o per una perfetta esecuzione sonora. No, perché Slauson Malone 1 (da pronunciare “uno”, a quanto pare) – progetto di Jasper Marsalis – è andato oltre tutto questo: reduce da un album sì sperimentale, ma prevalentemente elettronico come EXCELSIOR, decide di rompere qualsiasi schema presentandosi con una chitarra acustica e con Nicky Wetherell, un violoncellista che a primo impatto sembrava non avere assolutamente niente a che fare l’ambiente del festival. E così partono: zero visual dietro di loro se non per gli schermi illuminati soltanto di bianco, 10 minuti buoni di strumentale quasi da considerare unplugged poi improvvisamente rotti da suoni che ricordavano finalmente lo Slauson Malone 1 sentito in cuffia. Da lì in poi solo panico: da Marsalis che scende col microfono fino alle transenne del pubblico per chiedere a chiunque trovasse (guardie comprese) “What time is it?”, a una accennatissima Around The World (sì, quella) comparsa al massimo per un paio di secondi fino al violoncello tenuto sopra la testa di Wetherell e fatto pendolare come se fosse un orologio a muro. Dopo la fine quello che mi è rimasto è stato uno stato di estasi equilibrato alla più grande confusione che abbia mai avuto in testa. Con questa confusione avevo bisogno di staccare un po’ il cervello con il potere magico della cassa dritta pronta a demolire il mio apparato uditivo: a compiere questo ingrato compito sono stati i Sangre Nueva, un trio composto dai dj Florentino, Kelman Duran e DJ Python. Forse le 21 erano un orario un po’ troppo anticipato per rendere indimenticabile e perfetto questo set, ma è stato comunque un bel momento da passare al secondo palco. Ed è proprio con questo palco di Stone Island che vorrei muovere una critica, perché nonostante fosse una mossa voluta dagli organizzatori, il fatto di nascondere letteralmente i dj dietro

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