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Coma_Cose, ovvero: come barattare la propria qualità per il successo

Martedì 4 ottobre 2024. Sono seduto beatamente sulla tavoletta del WC di casa mia e, come sempre, sto spulciando la bacheca di Facebook per tenermi aggiornato sulle novità del giorno. Di colpo, spunta una foto di Francesca Mesiano e Fausto Zanardelli felicemente sposati. E voi vi chiederete: “E chi caspita sono codesti?”. California e Fausto Lama – i loro due pseudonimi – formano i Coma_Cose, duo ai vertici delle classifiche estive di quest’anno con Malavita. Nel biennio 2017-2018, i Coma_Cose rappresentavano per me la punta di diamante della “scena indie” (ne avevo già parlato in questo articolo dedicato a Gazzelle) ed erano sempre in rotazione nei miei ascolti quotidiani, ma dopo di allora sono praticamente scomparsi. Vedere quella foto sul mio telefono era un po’ come scoprire che il tuo ex migliore amico ai tempi del liceo s’è accasato o ha avuto dei bambini: ti scende una lacrima di nostalgia, ma niente più. California e Fausto, come sanno tutti, formano una coppia anche nella vita privata e, di certo, il loro matrimonio non è una notizia sconcertante – semmai è l’attesa dopo tutti questi anni di fidanzamento. Tuttavia, leggendo tra i commenti del post di felicitazioni pubblicato da Sei tutto l’indie di cui ho bisogno, mi sono soffermato sulle parole di un utente: “Se ci fosse un premio per il gruppo indie maggiormente peggiorato e uniformato alla massa e stuprato dai soldi, ecco… Lo avrebbero vinto e se lo sarebbero venduto, per soldi”. E un altro ancora: “Speriamo che ora che si son sposati, e a breve non si sopporteranno più, ricominceranno a fare buona musica”. A entrambi lascio un “mi piace”, perché la voce della verità ha parlato: i Coma_Cose sono il perfetto esempio di artisti pronti a rivoluzionare la propria scena e, invece, sprofondati dalla via del successo e dal guadagno facile. Malavita, dalle sonorità estive e reggaetoneggiante, è il simbolo di tutto ciò. Per chi c’era ai tempi – e parlo di ascoltatori e frequentatori attivi della “scena indie” nel 2017 -, i Coma_Cose erano entrati di soppiatto con Cannibalismo, per poi passare all’attacco con Golgota, Deserto e Jugoslavia (li scoprii con quest’ultimo singolo). Già da questi quattro brani traspare la loro personalità, fatta di giochi di parole, da un linguaggio nuovo e da un sound fresco e completamente diverso dal resto degli artisti di quel tempo. Poi la tripletta contenuta nell’EP Inverno Ticinese (Anima Lattina, French Fries e Pakistan) ha consegnato loro le chiavi della popolarità e del successo, tanto da diventare super richiesti e da imbastire in fretta e furia un Inverno Tour (seguito, chiaramente, da un Estate Tour nel 2018). Proprio in quel 2018, più precisamente il 28 aprile, andai a vederli dal vivo al Parco d’Europa a Padova, nel contesto del Parco della Musica. Pubblico delle grandi occasioni, un grande palco tutto per loro e un’esibizione di trenta minuti – del tutto normale con poche canzoni pubblicate – che non mi aveva soddisfatto del tutto, nonostante l’entrata irrisoria di un euro (bei tempi il pre-COVID). Il mese dopo, a maggio, ebbi l’opportunità di intervistarli via mail per la defunta webzine Feline Wood. Sebbene la fredda corrispondenza non è un valido indice emotivo, da quel momento inquadrai i Coma_Cose per quello che erano: una coppia che, dopo aver cercano invano la notorietà nelle loro precedenti carriere, stava cercando in tutti i modi di cavalcare l’onda, anche al costo di risultare boriosa, estroversa e superba. Proprio per farvi sentire le mie stesse reazioni di allora, vi lascio qui l’intervista completa, premettendo che inviai due volte la serie di domande perché, a detta loro, la prima era banale – e, signori miei, non era il mio lavoro fare il giornalista, anzi… Cercai già di porre degli interrogativi quantomeno interessanti. Avete sempre detto che vi siete conosciuti in un negozio dove lavoravate come commessi e vi siete messi a parlare di musica. Però, come dice il proverbio: “tra dire e il fare c’è di mezzo il mare”, come siete arrivati concretamente a parlare del progetto Coma_Cose? Tra il dire e il fare c’è stato tanto lavoro, tante prove, tanto materiale scartato e tanta voglia di rivalsa su ciò che ci circondava. Tutto questo però è avvenuto senza forzature, con leggerezza, senza nessuna fretta, modus operandi che sta ancora alla base di come “facciamo le cose”. Vivete entrambi a Milano, ma in realtà siete originari di fuori e la vivete come degli estranei che si sono infiltrati in un mondo non loro, ma in grado di sviscerare luoghi, emozioni e particolarità che nemmeno i milanesi conoscono. Com’è lasciare tutto del proprio posto d’origine e mettersi in gioco in una nuova realtà? Perché volete proprio raccontare di come sembra per voi Milano? Perché parliamo di quello che viviamo, perché così dovrebbe essere per chi fa arte, perchè in una grande città gli incroci di vite, colori e nazionalità offrono degli spunti di qualcosa che è vivido e si fa raccontare da solo. Tu Fausto eri già un volto noto per i fan dell’hip hop, mentre California bazzicavi tra qualche rave party a Pordenone. Cosa vi portate delle vostre esperienze passate, da quali contesti musicali venite e soprattutto ci attingete qualcosa per le vostre canzoni? La musica per noi si divide in due grossi capitoli, quella “sacra” del passato e quella “profana” che appartiene al futuro, per il momento siamo molto concentrati nel crearci un presente. I vostri testi a primo impatto possono sembrare semplici, vaghi e leggeri, ma in realtà dicono molto più di quel che si possa pensare. Tutto nasce spontaneamente mentre siete fuori oppure vi chiudete in studio e buttate giù qualche idea su quello che volete raccontare? Effettivamente i nostri testi sono sempre molto ricchi di immagini, cerchiamo di procedere su più livelli comunicativi, sta poi all’ascoltatore decidere quanto vuole scavare e trovare le figure più nascoste. Tutto quello che finisce nei testi è sempre fotografato, codificato, elaborato e catalogato, poi ad un certo punto questo materiale diventa una canzone. Continuate a dire che rap

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Quell’intervista a Gazzelle quando era ancora nessuno

Me lo ricordo come se fosse ieri il biennio 2016-2017. All’epoca scoppiò la bolla della “scena indie” italiana – quella che venne poi chiamata a posteriori “ITPOP” – guidato dal successo nazionale di Mainstream, secondo album di Calcutta uscito a fine 2015, e con l’uscita di dischi tra i quali Aurora (I Cani), L’ultima festa (Cosmo), Completamente Sold Out (Thegiornalisti), La fine dei vent’anni (Motta) e Avete ragione tutti (Canova). Proprio i Canova, al loro esordio discografico, erano sotto l’etichetta Maciste Dischi. Nata nel 2014 a Milano, in breve tempo è diventata una delle piccole punte di diamante di questa nuova ondata musicale. Non è un caso se, sempre sotto il loro nome, ha iniziato a muovere i primi passi Gazzelle, nome d’arte di Flavio Bruno Pardini. Quattro LP pubblicati, milioni di ascolti su Spotify (Destri è a quota 135.378.372 al momento di scrivere questo articolo), concerti agli stadi e una partecipazione al Festival di Sanremo 2024. Il piccolo Flavio è un artista dalla solida fama nella nostra Penisola e spesso vedo delle storie su Instagram delle mie conoscenze – parliamo di una fascia d’età tra i 25 e i 30 anni – che vanno a sentirlo dal vivo. Eppure, nessuno di loro saprebbe raccontare la sua ascesa al panorama mainstream nazionale o le sue prime esperienze musicali. Per fortuna c’è il sottoscritto a raccontarvelo perché, come avete capito dall’incipit iniziale, ho vissuto in prima persona la “scena indie” e, di conseguenza, l’arrivo di Gazzelle. Il primo singolo in assoluto, Quella Te del 9 dicembre 2016, non lo vede comparire nemmeno in video, dalla chiara ispirazione vaporwave (anche quella in voga ai tempi), e l’ufficio stampa di Maciste Dischi distribuisce solo foto sfocate, a celare la sua vera identità. Anche il successivo NMRPM mantiene ignoto il volto di Gazzelle, che viene immediatamente etichettato come una versione di Calcutta anni Ottanta. Per chi è anziano come me, si ricorderà la massiccia presenza del cantautore romano nel gruppo Facebook “Diesagiowave”, considerata praticamente la “massoneria dell’indie italiano” secondo Vice Italia. Con Zucchero filato era ormai pronta anche l’uscita dell’atteso album Superbattito e il primo tour nella penisola. Tutti volevano sapere chi fosse ‘sto Gazzelle e l’11 marzo 2017 sarebbe apparso al Vinile, storico locale di Rosà, in provincia di Vicenza, per la seconda tappa del suo lungo viaggio, che sarebbe cominciato al Monk di Roma il 3 marzo. Allora scrivevo a ruota libera per la webzine Feline Wood, tra un impegno universitario e l’altro, e dovevo assolutamente sfruttare l’occasione per intervistarlo. Contatto quindi Alessandro di Sporco Impossibile, ricevo in anteprima il presskit completo di Superbattito e fissiamo l’incontro per il pomeriggio del 3 marzo, nella fase di soundcheck con i Canova. Quando ci incontriamo, Flavio mi è apparso come un normale ragazzo qualunque, che vuole suonare la sua musica e disponibile a farsi conoscere. La mezz’ora passata in compagnia è piacevole e divertente: io, un pivello alle prime armi come “giornalista”, a parlare con lui nella sala fumatori, sprofondati nei nostri rispettivi pouf. La sera vado a sentire il suo concerto, compro il suo disco (senza autografo) e lo saluto dandogli una pacca sulla spalla, augurandogli un “in bocca al lupo” per il resto del tour. Fa ridere perché non avrei osato immaginare la sua crescita di popolarità negli anni successivi e non è un caso se, a distanza di tempo, Superbattito è l’unica cosa che ascolto del suo repertorio. Negli ultimi mesi, ripensando a quest’episodio, ho cercato di recuperare quella famosa intervista, di cui conservo ancora il file audio del telefono. Rileggendola mi è comparso un sincero sorriso di fronte alle domande ingenue poste a Flavio, alle sue risposte e a quello che oggi è diventato: un artista che, nonostante sia uscito dal mio radar e totalmente lontano dai miei gusti, ha saputo costruirsi una carriera di successo. Per l’occasione, ripropongo qui sotto l’intervista completa, ma prima: ve lo ricordate lo zucchero filato? Chi si nasconde dietro il personaggio Gazzelle? Come mai hai voluto mascherare il tuo volto? Dietro a Gazzelle si nasconde Flavio. Ho scelto di non farmi vedere troppo perché, in generale, non mi piace apparire molto e deve essere la musica l’unica cosa di cui si deve parlare. Provieni dal panorama musicale romano e ci sono tanti artisti come Thegiornalisti o Calcutta (anche se più “bolognese”) che sono noti a livello nazionale. Te come hai vissuto questo contesto? Sono contento che stia uscendo un sacco di roba da Roma; per quanto mi riguarda personalmente, non provengo da un contesto particolare, sono di Roma e basta. Quando hai pensato d’iniziare a far musica e da che gruppi o generi trai ispirazione? Da quando avevo sei anni, è sempre stata l’unica cosa che volevo fare e che poi ho sempre fatto, anche quando ero da solo nella mia cameretta, e negli ultimi anni ho formato una band perché volevo qualcosa di completo. Per quanto riguarda da chi prendo ispirazione dipende molto dal periodo, da cosa ascolto in quel momento o dai film che vedo. Permettici una domanda scomoda: molti ti paragonano a Calcutta, ma te ti accosti di più a lui o ne prendi le distanze. Nessuna delle due (e ride ndr). Edoardo lo conosco, ma non credo che sia un paragone fattibile; a me non interessa. Definisci la tua musica “sexy pop”: possiamo dire che prendi ispirazione da quella corrente definita “vaporwave”? Questo per quanto riguarda la parte estetica del progetto: oltre a scrivere e cantare una canzone, mi interesso anche della parte estetica come, ad esempio, i videoclip e non lascio nulla al caso. Molto dipende dalla regista dei video (Paula Ling Yi Sun, ndr) che viene da quel mondo, molto legata all’estetica; parlando con lei e tirando giù idee mi ha fatto scoprire questo mondo e mi è piaciuto, ma in realtà non so cosa sia questo “vaporwave”. Collegandoci con la parte grafica/visual, com’è nato il rapporto con Paula? Con Paula siamo amici da una vita perché ci siamo conosciuti ai tempi del liceo. Non avevo mai

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Italian Party 2024 – Un Festival Emo per Tutti

Genesi non programmatica di un’etichetta discografica To Lose La Track è un’etichetta discografica fondata nel 2005. Da quasi vent’anni scova e produce artisti accomunati da una matrice emo declinata nelle più diverse sfumature. Si va dall’emocore dei Fine Before You Came e dei Riviera al folk di Urali, passando per lo screamo degli Shizune. Un ventaglio di progetti accomunato dalla stessa cultura musicale, intesa non solo come l’insieme delle coordinate sonore e storiche delle band di riferimento del genere, ma come attitudine e approccio alla musica stessa, non destinata a rimanere stampata su disco, ma a prendere vita sera dopo sera, in live che rendano le note un mezzo per azzerare la distanza tra le band e il pubblico. Una musica che produca movimento, sudore, contatto tra i corpi. Una musica che riesca ad essere il collante sociale di una piccola comunità di persone. Sembrano esagerazioni, ma è da questi presupposti che nasce To Lose La Track, che prima di diventare ufficialmente un’etichetta vera e propria è stata per diversi anni un progetto di aggregazione, nato dalla volontà di Luca Benni (il fondatore dell’etichetta) di andarsene in giro per l’Italia a scoprire band e artisti e radunarli tutti insieme su un palco. L’obiettivo era quello di riunire “gruppi che suonano sotto al palco, in mezzo alla gente, e non sopra, di ragazzi intraprendenti che organizzano concerti chiamando tutto quello che c’era di meglio e poco conosciuto in Italia in quel periodo, che stampano dischi, spille e magliette con grafiche fichissime, di pubblico che si muove e fa chilometri per andare ai concerti”. Prima di To Lose La Track nasce quindi l’Italian Party, oggi considerato il festival di riferimento emo in Italia. La prima edizione si tiene nel 2003, prima ancora che una vera e propria scena italiana esistesse. Umbertide, paese natale di Luca Benni e sede dell’Italian Party da più di vent’anni, diventa l’epicentro della scena emo, un posto raggiunto ogni anno da persone sparse in tutta Italia che salgono in macchina o in treno per finire dritti nella Valle del Tevere, in un paesino di circa sedicimila abitanti che a fine luglio (i giorni del festival) sembrerebbe una città fantasma, se non si popolasse improvvisamente di maglie oversize con lunghe scritte, i nomi o i testi delle band che ormai sono la storia dell’emo italiano stampate sopra come manifesti fondativi del genere. È a Umbertide che prendono forma le band emergenti, altrimenti abituate a suonare in garage polverosi o in feste di paese che poco o niente hanno a che fare con la loro poetica; lì che viene presa la decisione di produrre con un certo rigore i loro primi album, finalmente emancipati dall’elettrostatica di musicassette autoprodotte; lì che i Giardini di Mirò e i Fine Before You Came si impongono come capisaldi della scena, capaci di influenzare il suono delle band che verranno. È lì che nascono le band che verranno, figlie delle collaborazioni tra chi sul palco ci suona o da chi ci vorrebbe suonare, una staffetta generazionale generata dalla voglia di perpetuare una certa cultura attraverso la musica. Effetto della veduta d’insieme sulla Valle del Tevere È il primo anno che partecipo all’Italian Party, giunto alla sua ventiduesima edizione. È anche il primo anno in cui il festival non si tiene a Umbertide, ma a Montone, comune adiacente situato a cinquecento metri dal livello del mare e che per questo guarda Umbertide dall’alto. Una tradizione ventennale spazzata via da “UmBEERtide” il festival della birra artigianale organizzato nello stesso fine settimana, e che non credo abbia ottenuto il successo sperato. A Montone gli abitanti sono ancora meno – circa 1500 – e per chi non è arrivato in auto deve essere stato complicato trovare un modo per fare la spola tra i due comuni. Se la scelta di spostare la location ha creato problemi logistici, il festival ne ha sicuramente guadagnato in estetica. Montone è il tipico paesino umbro situato sul cucuzzolo di una collina. Le mura che ne delimitano il confine come le cinta in pietra di un enorme castello, la verticalità delle casette dai tetti spioventi affacciate sulle piazzette del Paese, sui bar e i panifici che accolgono un numero inaspettato di persone, la vista panoramica che offre agli occhi una valle verde e rigogliosa. Tutto questo rende anche l’attesa dei concerti piacevole, dal passeggiare per le viuzze inclinate quasi di quarantacinque gradi al girare per gli stand con una birra in mano, in cerca di una maglietta o una tote bag da acquistare. I palchi del festival sono due: il main stage è situato sul campetto all’aperto di basket comunale, con il palco sotto uno dei due canestri e davanti a una rete da calcio a cinque. La sensazione è di trovarsi a una festa liceale, con le coppiette o gli stanchi stesi sui prati ai lati del campo che fanno da spalti immaginari. Si può assistere ai concerti da ogni angolo del palco, anche dal retro. L’acustica è ottima e le band ben visibili. Il secondo palco è incassato tra le tre mura di una torretta in pietra costruita centinaia di anni fa, nel punto più alto di Montone. È una delle location più suggestive in cui sia mai stato, ma anche, forse, la più limitante: il suono è attutito dalla densità dei corpi sotto il palco, non libero di propagarsi ai lati della struttura, cintata dalle mura in pietra; la visibilità è ridotta subito dopo le prime file, e la terra è coperta di piccoli sassolini ma anche di massi appuntiti su cui è facile cadere, considerato il pogo e lo stage diving a ogni concerto. Ogni band suona in media per mezz’ora, e i concerti si alternano tra il main stage e il palco secondario senza pause tra una performance e l’altra. Questo rende praticamente impossibile non perdersi almeno cinque minuti di una delle band che suona prima o dopo il gruppo a cui decidiamo di dare la priorità: anche in un festival così piccolo e con pochi palchi è

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Primavera Sound 2024: pagellone di fine festival (parte 1)

Dopo tre anni di presenze consecutive al Primavera Sound, l’aria di Barcellona inizia ad esserti familiare: guardi commosso l’immensità reverenziale del Parc Del Forum dal finestrino dell’aereo sul punto di atterrare, predici i tempi di trasporto dall’aeroporto al centro città con più precisione di quanto indichi Google Maps e sai già dove sia lo scaffale con sopra il tuo succo iperzuccherato preferito al Mercadona di fiducia. Ti fermi a pensare a quanto sia cambiato nella tua vita dall’ultima volta in cui hai calpestato quelle scale della metro Besos Mar e ti accorgi di come tutto cambi pur rimanendo tutto uguale. È arrivata quella settimana dell’anno, le preoccupazioni sono rimaste nella valigia che hai deciso di non imbarcare per risparmiare i 50 euro che chiedeva Ryanair. Sei dannatamente felice. L’anno scorso vi ho portato insieme a me con un diario di bordo personale che raccontava passo dopo passo le mie avventure tra gli infiniti palchi che offre il festival. Quest’anno proverò a riassumere tutto in una formula che il Primavera stesso mi ha aiutato ad amare: condividendo esperienze con dei miei amici. Questo articolo sarà scritto a sei mani insieme ad Antonio Genovese e Marco Bisceglie, che avete già avuto modo di conoscere nella breve ma intensa storia di questo sito. Ognuno di noi avrà una manciata di concerti da analizzare e valutare a modo suo. The National (Antonio Genovese) Sì può essere obiettivi nella recensione di un live se il tuo cantante preferito, della tua band preferita, passa buona parte del concerto abbracciandoti, sudandoti addosso, rischiando di seppellirti sotto il suo metro e novantacinque di altezza? Sì può essere obiettivi se ti concede di cantare (urlare sarebbe più appropriato) due o tre versi di England, un posto che è stato parte della tua vita negli ultimi otto mesi? La risposta è sì, perché chiunque fosse presente al Razzmatazz il 29 maggio può raccontare di aver assistito alla miglior versione della carriera dei National. Una band che ormai riesce ad andare col pilota automatico, i cui membri sanno esattamente come interagire tra loro e con il pubblico, senza per questo perdere quella spontaneità e gioia di suonare: Aaron e Bryce Dessner giocano con le loro chitarre come se ne scoprissero le potenzialità per la prima volta, divertendosi ad allungare le code di pezzi incendiari come Smoke Detector, su cui Matt Berninger può continuare a biascicare durante gli oltre otto minuti di canzone. È su di lui che ricadono gli sguardi di tutti. Per quanto i National siano una band corale, in cui tutti i membri partecipano alla fase compositiva e hanno un’impronta riconoscibile, durante il live gli occhi sono inevitabilmente avidi del frontman: lo seguono, lo cercano quando lo perdono in una delle sue scorribande tra il pubblico, dove il suo volto cerca di nascondersi tra le spalle e i capelli delle persone in prima, seconda e terza fila. E nel primo live di questo tour estivo lo fa costantemente, forse proprio galvanizzato dall’ entusiasmo per la prima data (spoiler: l’ho visto una settimana dopo a Roma, e il trasporto è stato lo stesso) o dalla dimensione raccolta della venue. Il paragone con il Matt Berninger di due anni prima, dimesso, quasi impaurito del contatto con i fan, è impietoso. Un live dei National è diventato un momento di catarsi collettiva in cui perdersi e ritrovarsi, un luogo in cui il muro del suono viene abbattuto su pezzi come Abel (molti), o dove ad essere abbattute sono tutte le barriere emotive, come accade sul crescendo baritonale di About Today (forse un po’ pochi a causa di una scaletta che ha prediletto pezzi più muscolari). Il momento finale è dove quella catarsi si scioglie: la band diventa pubblico e il pubblico band per cantare insieme sulle note di Vanderlyle Crybaby Geeks con il microfono posizionato in prima fila in direzione dei fan e Matt, con la giacca nuovamente indosso per il gran finale, a fare da direttore d’orchestra e mimare i versi della canzone. VOTO: 9 The Dare (Matteo Russo) Ormai lo sappiamo: il Primavera Sound è anche un palcoscenico per fare esplodere nuove generazioni di musicisti. E quale esempio migliore dello show in Sala Apolo alle 2 del mattino di Harrison Patrick Smith – in arte The Dare – progetto di un incravattato e sbarbato newyorkese che tanto deve della sua estetica al mio amato James Murphy degli LCD Soundsystem. Nella sua musica c’è l’esaltazione dell’eccesso usando uno stile che si sposa molto bene con il fresco d’uscita BRAT di Charli XCX, per cui ha anche curato la produzione di Guess. Il concerto poi è una bomba: un impero di synth spinti all’inverosimile, drop con bassi esagerati e crowd surfing sul finale su un pezzo in cui urla “They say i’m too f***ing horny, wanna put me in a cage”. Segnatevi il nome, perché di questo ne riparleremo molto presto. VOTO: 8 William Basinski: The disintegration loops (Antonio Genovese) Premessa: replicare un’ opera come i Disintegration Loops è impresa ardua, “specialmente se non sei Max Richter”, come sottolineato da William Basinski, salito sul palco al termine della performance per ricevere il riconoscimento del pubblico. Qualcosa, nella resa live dell’ opera, andrà inevitabilmente persa, tecnicamente o concettualmente. Mi ha sempre affascinato come nell’ opera si arrivasse dal punto A al punto B senza rendersene conto, come le note lentamente sbiadissero o si accattocciarsero su loro stesse di soppiatto, fin quando il nostro orecchio non si fosse accorto della variazione, facendocelo notare. E come questo momento fosse diverso da persona a persona e di ascolto in ascolto. Proprio come quando si prende coscienza di sé stessi in un determinato momento della vita e ci si guarda alle spalle, tirando le somme e domandandosi dov’è andato il tempo. Tutto questo, all’auditorium, non si percepisce: contrarre l’esecuzione in trenta minuti ha compresso il tragitto da A a B, creando piccole tappe intermedie che fungessero da punti di riferimento. Con l’orchestra è andata persa anche l’atmosfera di fondo, che su disco si fa via via più

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Primavera Sound 2024: pagellone di fine festival (parte 2)

Continua qui il racconto del Primavera Sound 2024 iniziato in questo articolo, nel caso ve lo foste perso. Jai Paul (Matteo Russo) Non si può parlare di Jai Paul senza contestualizzare perché sia stato così importante come nome nella proposta di quest’anno. Jai era un normalissimo ragazzo inglese di origini indiane nel 2011, quando decise di caricare BTSTU su MySpace (sì, quel MySpace): un pezzo che sembrerebbe avveniristico fosse uscito oggi, figuriamoci all’epoca. Il pezzo esplode su internet, gli artisti se ne accorgono in primis, tanto che nomi del calibro di Lorde, James Blake e BROCKHAMPTON dichiararono che senza Jai Paul la loro musica non sarebbe stata la stessa, e dei certi Drake e Beyoncé usarono proprio BTSTU come base campionata in dei loro pezzi. Poi per un furto del suo PC contenente il suo album di debutto e un conseguente leak dello stesso, Jai si distacca come figura pubblica e il progetto sembra destinato a rimanere avvolto nella leggenda. Passano quasi 10 anni e Jai decide di fare il suo primo concerto (!) l’anno scorso al Coachella, con una dimostrazione di affetto da parte del suo pubblico che aveva del commuovente. Passa un anno e una scarsa manciata di altri concerti tra New York e Londra e Jai Paul sbarca per la prima volta in Spagna, in un palco parzialmente svuotato dal fiume di persone che in quel momento era alle prese con la scarsissima voglia di performare di Lana Del Rey. Ne approfitto per infilarmi in prima fila e lì mi ritrovo nel mezzo di un raduno del canale Discord del Primavera Sound, composto da persone chronically online; mi sento a casa. Il concerto poi inizia e non si capisce se il più emozionato fossi io o Jai Paul stesso, ancora evidentemente non abituato a fare musica dal vivo. La sua discografia è ovviamente scarna e consiste quasi solo dell’album leaked che col tempo ha deciso di pubblicare anche in streaming, anche se con molti pezzi non masterizzati. E così si è materializzato il sogno di migliaia di fan che fino a pochissmo tempo prima nemmeno prendevano più in considerazione la possibilità di sentire davanti a loro suonate Jasmine o Str8 Outta Mumbai. Tra il mito e la realtà, c’è la timidezza. VOTO: 7,5 Barry Can’t Swim (Matteo Russo) C’è della poesia nel landscape che regala il palco sponsorizzato da Cupra al parco del forum la notte: una sorta di moderno anfiteatro che da le spalle al mare, con gradinate tanto ambite al pubblico che ci arriva dopo ore senza la possibilità di sedersi. Normalmente il contesto perfetto per ascoltare un concerto rilassante ed evocativo. Di evocativo c’era molto, di rilassante un po’ meno nel set di Barry Can’t Swim, un ragazzo dall’accento spiccatamente scozzese che ha da pochissimo iniziato a suonare sotto questo nome. Le influenze del progetto sono chiare, per alcuni quasi troppo: aspettatevi di vedere in scala un concerto di Fred again.. con qualche strumento sul palco in stampo Caribou. Facile a dirsi, meno facile realizzare un coinvolgimento emotivo simile al fenomeno del momento. Eppure dal vivo funziona benissimo: ti lascia il tempo di ballare senza freni con Kimbara, per farti venire la pelle d’oca con Woman e persino creare un momento gospel a tema concerti portando sul palco l’amico somedeadbeat. L’elettronica sentimentalista ci piace, datecene di più. VOTO: 7,5 Lankum (Antonio Genovese) Quanto si può sperimentare con la tradizione senza che di questa se ne perda l’essenza? A questa domanda provano a rispondere i Lankum, band irlandese nata e cresciuta a Dublino. Il gruppo non si limita a raccogliere e riarrangiare canzoni della tradizione gaelica, ma le fa proprie donandole una forma organica, aderente al loro modo di fare musica: ogni canzone inizia in sordina, con la voce di un membro del gruppo che prende l’iniziativa stagliandosi sul silenzio; lentamente si aggiunge uno strumento dopo l’altro, e poi le altre voci, in crescendo corale che da vita a code incredibilmente lunghe e articolate, con il folk tradizionale che si trasforma quasi in post rock. È un’operazione necessaria e coraggiosa, che aiuta il passato a non sbiadire e a renderlo attuale. Non si tratta di un’ operazione nostalgia perché i Lankum, dal vivo, incarnano alla perfezione lo spirito irlandese trapiantato ai nostri giorni. Sono fieri indipendentisti, ma non si aggrappano soltanto a temi del passato: parlano della frustrazione che provano nell’avere ancora una certa sudditanza psicologica nei confronti del governo britannico, ma discutono anche della questione palestinese apertamente (gli unici tra le band presenti al Primavera a non glissare sulla questione o a non approcciarci soltanto con messaggi simbolici). I temi che le canzoni tradizionali irlandesi dipingono non restano sullo sfondo, ma prendono vita qui ed ora, temi universali che cambiano soggetto. E loro, da bravi irlandesi, riescono a rendere questo passaggio reale, grazie allo storytelling che li contraddistingue. VOTO: 8 070 Shake (Marco Bisceglie) Arriva anche per me l’ultimo giorno di festival e la tabella di marcia prevede, questa volta, di spendere diverse ore a Mordor, al Main Stage.Si inizia subito alle 19:30 per un’artista che pensavo potesse rivelarsi una piccola sorpresa all’interno di questo giorno. Non sono mai stato un grande fan di 070 Shake, ma ho spesso ascoltato le sue hit maggiori come Guilty Coscience, Cocoon e Black Dress.Pronti via e si comincia subito male: l’audio è uno schifo. Ci sarebbero forse parole più adatte a schifo, ma non consone a un articolo. E’ distortisissimo, con bassi che sfondano timpani e tutto ciò che ne consegue e lei neanche se ne rende conto.Accade però un miracolo degno di possibile indagine della fisica moderna: le mie orecchie riescono ad abituarsi all’inferno che proviene dal palco e a filtrare quel di decente che c’è nella performance. Ovvero quasi nulla.Il vero miracolo, cioè che lei effettivamente si accorga che tra autotune, note stonate e acustica non pervenuta mezza folla vorrebbe chiamare il 900 925 555, però non accade. Anzi.Sembra infatti che 070 Shake si sia autoconvinta di essere diventata una via di mezzo tra

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Ho toccato la schiena sudata di Blank Banshee

Blank Banshee è un pazzo scatenato, punto. Potrebbe terminare così il riassunto della serata vissuta lo scorso 27 novembre all’Arca di Milano, unica tappa italiana del 4D Tour dell’artista mascherato canadese. Tuttavia, per dovere di cronaca, è giusto approfondire il racconto di quella che è stata l’ora più folle ed insensata del mio 2023. Cominciamo col dire che Blank Banshee, per chi non lo sapesse, è il precursore del genere vaportrap, sottogenere che mescola gli elementi della vaporwave con la trap. Di lui si conosce nome, cognome, età, paese e città d’origine, ma nessuno lo ha mai visto in faccia. Infatti, ad ogni live, si nasconde dietro ad una maschera brillantinata, passamontagna e cappuccio. La fama è arrivata nel 2012, all’apice della popolarità della vaporwave, con la canzone simbolo Teen Pregnancy estratta dal suo album di debutto Blank Banshee 0, dopodiché il suo anonimato, Internet, i “meme” e tutto il resto ha permesso alla sua figura di farsi conoscere in tutto il mondo, Italia compresa. Infatti, Blank Banshee aveva già fatto visita all’Italia diverse volte in passato: nel 2017 (Bologna) e nel 2019 (Bologna, Milano e Roma), mentre l’unica presenza del 2021 (ai Magazzini Generali di Milano) venne annullata per le questioni sanitarie legate al COVID-19 – e, aggiungo, gran peccato visto che vivevo a pochi passi dalla venue. Insomma, questo ritorno nella nostra penisola era davvero molto atteso dai suoi fan di lunga data e dal sottoscritto, che non aveva ancora avuto piacere di vedere una sua esibizione. E l’Arca è il posto perfetto per accoglierlo perché questo spazio polifunzionale, fondato appena un anno fa, mira ad essere un punto di riferimento per la scena elettronica a Milano. Veniamo al dunque. Parcheggio la mia auto poco distante dal locale, entro dentro verso le 20:30 e, in attesa dell’inizio alle 21:30 con tanto di countdown proiettato sul muro, scambio quattro chiacchiere con un mio amico. La stanza non è enorme, le persone non sono tante, ma l’atmosfera è quella di una serata piena di adrenalina e tra veri supporters di Blank Banshee. Appena termina il tempo, la folla inizia ad acclamare la presenza di Blank Banshee e lui sbuca fuori. Sulla sua postazione non ha nulla se non un computer portatile e un launchpad: un segnale iniziale che potrebbe far pensare a un pre-set a cui basta premere avvio. Invece, già dopo i primi secondi, il nostro eroe mascherato si scatena, facendo rimbalzare le proprie dita sulla propria strumentazione. Quello che avviene dopo è difficilmente descrivibile. Si susseguono diversi pezzi del proprio repertorio, a partire da Blank Banshee 0 fino ad arrivare a 4D, l’ultimo album prodotto. L’artista nordamericano carica la folla nelle primissime fasi con sonorità forti e potenti, riuscendo successivamente ad alternare questi momenti concitati con quelli più distesi – anche se, dal vivo, anche brani cosiddetti “leggeri” risultato martellanti grazie alla resa dei bassi. Blank Banshee è abile a regalare numerosi colpi di scena al pubblico con la propria musica, ma anche i video, proiettati alle sue spalle, contribuiscono alla resa dell’atmosfera generale. Grafiche spartane ed essenziali tipiche della vaporwave, più altri elementi propri del progetto come, ad esempio, le varie copertine degli album. In un battibaleno, un’ora di concerto è volata e arriviamo al termine di esso, con Blank Banshee che si getta sul pubblico scatenato. In pochi secondi viene accerchiato e il nostro uomo passa la restante mezz’ora a prestarsi per foto e autografi. Tra le migliori scene possiamo ricordare: un tizio che tira fuori un fazzoletto di carta e una penna; un altro tipo che gli porge un libro di Pier Paolo Pasolini; il bodyguard che lo invita a tornare nel backstage, ma lui lo respinge dicendo che non ci sono problemi. Proprio quest’ultimo fatto mi ha notevolmente colpito: Blank Banshee, nonostante la maschera, ama il proprio pubblico e ringrazia tutti coloro che gli porgono un complimento. Come al sottoscritto, con un bel selfie completamente abbracciati, con la mia mano sulla sua schiena sudata e una forte stretta di mano finale. Non ci sono dubbi: Blank Banshee è l’eroe mascherato della gente comune di cui avevamo bisogno. Le prime due foto di questo articolo sono a opera di Charles-Antoine Marcotte. Luca Basso

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C2C 2023: Racconto dal mondo

Quest’anno il C2C era tappezzato in qualsiasi pannello illuminato del motto IL MONDO, scritto in qualsiasi lingua possiate immaginare. Penso sia un ottimo punto di partenza per raccontarvelo, perché effettivamente la mia prima esperienza al festival torinese è stata una grande finestra verso un mondo che l’Italia fa ancora troppa fatica a inglobare e fare suo. Ma tenete a mente una cosa: C2C non è solo musica. Nella sua installazione ai padiglioni del Lingotto si è messa in scena una vera e propria mostra di arte contemporanea, con spettacoli suggestivi di luci e dei palchi che non hanno niente a che vedere con qualsiasi cosa sia presente nel nostro paese. Vi basti pensare che a collegare i due palchi posti in fiera è stato dedicato un intero padiglione pressoché vuoto e buio, se non per un paio di palle da discoteca e sporadici fasci di luce che le colpivano per creare un effetto scenografico fuori dal comune, a maggior ragione se percorso in solitaria.      Visualizza questo post su Instagram            Un post condiviso da C2C Festival (@clubtoclub) Non è solo musica, ma di musica ce n’è stata. Premetto che ho avuto modo di vedere due serate delle tre principali che erano a disposizione, saltando quella di mezzo con lo show principale di Caroline Polachek e quelli di Marina Herlop, Evian Christ e Overmono; quindi, per ovvie ragioni non potrò parlare di quanto successo lo scorso venerdì. La prima serata si è tenuta alle OGR e, entrando all’orario di apertura, è stato sorprendentemente facile raggiungere le transenne e custodire gelosamente il mio posto per tutte le performance che sarebbero succedute. Già lì ad aspettarci sul palco c’era un set di Reptilian Expo, quota italiana interessante che ha nei suoni glitchati la sua cifra stilistica. Subito dopo è stato il turno di Rachika Nayar, che con un ambient quasi terapeutico talvolta “sporcato” da passaggi più intensi ha catturato l’attenzione di un pubblico che probabilmente la conosceva poco, ma che ora la avrà sicuramente nel proprio radar. È poi arrivato il momento dei nomi di cartello della giornata: prima con i Model/Actriz, band che oserei definire dance punk con forti inflessioni elettroniche. Parlai già di loro nell’introduzione al festival che potete trovare qui. Quello che non potevo immaginare era la totale pazzia che questi ragazzi di Brooklyn riescono a portare sopra (e sotto, col cantante finito in mezzo al pubblico) il palco. Il frontman Cole Haden si è presentato con una bottiglia di vino rosso, un bicchiere di plastica da sagra e un rossetto che si sarà messo almeno tre volte nel corso dello show. Tra urla sguaiate, pose da fascia protetta e una self-confidence raramente vista su un palco, chiunque quella sera alle OGR è rimasto impressionato dalla loro prima apparizione italiana. Loro stessi ci hanno promesso che torneranno presto, e noi non vediamo l’ora. La curiosità era però tutta su una Caroline Polachek che di lì a poco si sarebbe esibita per quello che era probabilmente il suo primo assaggio di dj set con un pubblico così grande. Perché siamo abituati a sentirla cantare quei due album meravigliosi che sono Pang e Desire, I Want To Turn Into You, ma nessuno conosceva le sue capacità in console. Spoiler: non è stato uno show tecnicamente perfetto, anzi era facile vederla in difficoltà nei cambi tra un pezzo e l’altro. Quello che però renderà indimenticabile quell’ora e mezza è stata la contagiosa energia positiva che emanava ad ogni suo movimento, che fosse un ballo – come sempre – aggraziato o un movimento istintivo dettato dall’entusiasmo che il pubblico le restituiva. E la musica che passava in cassa era appetibile per ogni gusto, letteralmente: dai remix delle sue Welcome To My Island e Bunny Is A Rider, a dei passaggi di pura pc music con SOPHIE, passando poi alla DnB di Mura Masa e Hudson Mohawke, fino ad un bellissimo omaggio ai Massive Attack con Teardrop e addirittura le italianissime Ti Sento dei Matia Bazar (a lei molto cari) e PAZZESKA di MYSS KETA e Guè. Pazzia. Il terzo giorno invece è stato teatro di uno degli spettacoli più indimenticabili che abbia mai visto, non tanto per la sua bellezza o per una perfetta esecuzione sonora. No, perché Slauson Malone 1 (da pronunciare “uno”, a quanto pare) – progetto di Jasper Marsalis – è andato oltre tutto questo: reduce da un album sì sperimentale, ma prevalentemente elettronico come EXCELSIOR, decide di rompere qualsiasi schema presentandosi con una chitarra acustica e con Nicky Wetherell, un violoncellista che a primo impatto sembrava non avere assolutamente niente a che fare l’ambiente del festival. E così partono: zero visual dietro di loro se non per gli schermi illuminati soltanto di bianco, 10 minuti buoni di strumentale quasi da considerare unplugged poi improvvisamente rotti da suoni che ricordavano finalmente lo Slauson Malone 1 sentito in cuffia. Da lì in poi solo panico: da Marsalis che scende col microfono fino alle transenne del pubblico per chiedere a chiunque trovasse (guardie comprese) “What time is it?”, a una accennatissima Around The World (sì, quella) comparsa al massimo per un paio di secondi fino al violoncello tenuto sopra la testa di Wetherell e fatto pendolare come se fosse un orologio a muro. Dopo la fine quello che mi è rimasto è stato uno stato di estasi equilibrato alla più grande confusione che abbia mai avuto in testa. Con questa confusione avevo bisogno di staccare un po’ il cervello con il potere magico della cassa dritta pronta a demolire il mio apparato uditivo: a compiere questo ingrato compito sono stati i Sangre Nueva, un trio composto dai dj Florentino, Kelman Duran e DJ Python. Forse le 21 erano un orario un po’ troppo anticipato per rendere indimenticabile e perfetto questo set, ma è stato comunque un bel momento da passare al secondo palco. Ed è proprio con questo palco di Stone Island che vorrei muovere una critica, perché nonostante fosse una mossa voluta dagli organizzatori, il fatto di nascondere letteralmente i dj dietro

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James Blake al Fabrique: back to the origins

James Blake @ Fabrique, foto di Maria Laura Arturi Riunione infinita al lavoro, sciopero Atm (per chi non è di Milano, sciopero dell’Azienda dei Trasporti Milanesi che, negli ultimi anni, si verifica, tendenzialmente, ogni due settimane) e acquazzone come dio comanda. Tutte le mie volontà di arrivare al concerto ad un orario decente falliscono miseramente. Allo stesso modo, anche le mie aspettative vengono ribaltate totalmente: convinta che avrei pianto dall’inizio alla fine del concerto, mi ritrovo fin da subito in un dj suonato circondato da luci al neon e fumi sottopalco. È impossibile restare fermi. Sul palco, oltre ad un affascinante James Blake alle tastiere, un set composto solamente da un batterista e un polistrumentista che alterna tastiere e diavolerie elettroniche con le chitarre. Ognuno suona su ritmi, basi, volumi differenti, c’è chi accelera improvvisamente, chi rallenta, chi crea caos, chi crea ordine. Sembra impossibile creare un live simile, ma in tre riproducono un muro sonoro devastante. Il 18 settembre 2023 al Fabrique di Milano rappresenta la prima data del tour europeo di Playing robots into Heaven, sesto album del cantante britannico che ritorna alle sue origini elettroniche. La maggior parte del materiale è frutto di schizzi su sintetizzatori modulari che il cantante portava in tournée, facendo jam session per passare le ore tra un concerto e l’altro. Alcune di queste registrazioni si sono trasformate in strumenti per i suoi DJ set e alla fine sono diventate le fondamenta di brani adatti al dancefloor. Blake strizza l’occhio alle sue radici dubstep e intreccia elementi di techno, R&B, house e ambient, mantenendo la sua distintiva e gelida malinconia come file rouge e accompagnando il tutto dalla sua voce soul. Il risultato è un’evoluzione ispirata del suo sound, con Blake che di tanto in tanto guarda nello specchietto retrovisore mentre si muove in una nuova direzione. La scaletta del concerto è infatti un susseguirsi di improvvisazioni elettroniche e di composizioni del repertorio di Blake di una qualità e raffinatezza impressionanti. Preoccupato di fare brutta figura e di mandare tutto all’aria (“we can all fuck this up”, ha detto moderatamente titubante), James Blake ci propone suoni da club e echi dub, energia techno e beat hip hop che si tessono attraverso i nuovi brani come Asking to break, Loading, Fall Back e Tell me. Elemento essenziale del concerto è il ritmo che a volte ti martella con la cassa dritta mentre in altre occasioni fa fatica a prendere corpo, lasciando un senso d’incompletezza. Anche la platea sembra un po’ frastornata, sempre in attesa di un liberatorio momento a cui affidarsi con certezza e tranquillità per viaggiare su dei comodi vagoni. Quando però la direzione si fa chiara e prende per mano la composizione, che sia di elettronica pura, sia che sia pop, tutto diventa magico e accattivante. Fire the editor del nuovo album è una carezza ma dal vivo si trasforma sul finale in un lungo strumentale con la batteria elettronica che colpisce nel petto. L’ultimo album è però anche la cornice della riproposizione dei pezzi storici dell’artista, a partire da Limit to your Love, la ballad onirica spezzata dal silenzio e da echi malinconici a Big Hammer e Hummingbird. Giocandosela a parimerito con Justin Vernon dei Bon Iver, Blake è l’artista della malinconia, il più infido e ricco dei sentimenti umani, sentimento rannicchiato al sicuro nel suo sofferto, pieno e rotto timbro vocale. Ovviamente, uno dei miei sentimenti dolorosamente preferiti. «Thank you for being the first to hear the new songs, live. Thank you for coming» dice Blake al termine del concerto, in cui non ha quasi mai parlato con il pubblico, ma si è rivolto a ogni persona presente con la sua musica, il suo linguaggio. Un live che verso il finale propone Godspeed, cover di Frank Ocean per chiudere poi con il brano Modern Soul del 2016 che si ricollega agilmente con i suoni del nuovo album, coerente con il resto della scaletta. Un concerto illuminante, e spiazzante al tempo stesso, assolutamente da godersi che, a mio parere, funzionava di più quando il groove alzava i toni ma perdeva un po’ di smalto quando si addentrava nella dimensione più intimistica. Matteo Russo

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Ci vuole più gente di mare come Daði Freyr

Il 18 settembre 2023, al Fabrique di Milano, è in programma l’attesissimo concerto di James Blake per l’unica tappa italiana del suo nuovo tour. Se fate una rapida ricerca su Google e affini troverete numerosi articoli in merito, dove si possono leggere parole di elogio e magnificenza verso l’artista britannico. Anche io avrei tanto voluto esserci: sebbene non abbia mai assistito ad un suo live, il rincaro dei prezzi dei biglietti che stiamo subendo qui in Italia mi ha fatto desistere. Però non è l’unico motivo perché la stessa sera, al Santeria Toscana 31, si esibiva Daði Freyr. In confronto, su di lui non c’è proprio nulla in Internet per quanto riguarda la sua scappatella a Milano – anzi, molto probabilmente questo articolo è il primo link che avete trovato. Eppure è strano perché con la sua Think About Things – presentata per l’Eurovision Song Contest 2020 – è stata una delle canzoni più ascoltate (e apprezzate) qui in Italia e nel resto dell’Europa. Effettivamente – senza nulla togliere al bellissimo Santeria – la location scelta è piuttosto piccola rispetto alle altre date del suo tour. Nonostante il giorno infame – mi chiedo perché di lunedì bisogna organizzare un concerto – mi presento al locale alle 20:30, giusto in tempo per vedere la mezz’ora di esibizione di Toucan. Non avevo sentito nulla del repertorio del cantautore irlandese, ma grazie solo alla propria voce e alla propria chitarra (più una seconda suonata da un accompagnatore) è riuscito a rasserenare l’ambiente, coinvolgendo allo stesso tempo il pubblico facendolo cantare in alcuni spezzoni. Non passa inosservato, invece, la grande faccia gonfiabile di Daði posta dietro al piccolo palco, oltre alla serie di luci a neon attorno ad essa. L’intuito mi suggerisce che sarà tutto molto colorato ed esplosivo, proprio come la sua musica dance-pop. Finalmente, con una timida e pacata entrata in scena, Daði prende posto sul palco, insieme ad altri due musicisti, e saluta il pubblico italiano. Partenza in crescendo con Thank You per acclimatare i presenti e, al termine del primo brano, il “grattacielo” islandese inizia a scherzare con tutti. Sarà uno dei punti cardine della serata e ve lo spiego con alcuni episodi in ordine sparso: Saluta calorosamente una bambina in prima fila, sulle spalle del proprio padre; Prende in mano lo smartphone di una persona e inizia a farsi un video; Tenta di mettere mano sulla strumentazione della propria fonica, a lato del palco; Sfodera alcune pose scherzose e provocanti; Dice di aver bevuto un cappuccino dopo le 11:00 in una caffetteria; Ruba un secondo telefono e tenta di infilarselo nei pantaloni; Regala battute e perle di saggezza tra una pausa e l’altra. Insomma, quello che mi trovo davanti è un Daði Freyr pronto a scatenarsi e a divertirsi genuinamente con noi spettatori. E la scaletta prosegue con un ritmo scattante con canzoni quali Where We Wanna Be, Sometimes, Moves to Make, 10 Years e I’m Fine, senza dimenticare Skiptir ekki máli (unica canzone in islandese che io ricordi del concerto). Con una velocità impressionante arriviamo proprio a Think About Things a chiudere il tutto. Ma la sorpresa arriva con il “bis” perché, senza conoscere una parola d’italiano, inizia a cantare Gente di Mare di Umberto Tozzi e Raf, chiaramente con un foglio davanti a sé con il testo stampato. Dove lui sbaglia chiaramente parole, il pubblico risponde incoraggiandolo e cantando: il suo sforzo di farsi amico i milanesi è più che apprezzato e, anzi, è un chiaro segnale delle dell’amore verso la musica di Daði. Senza nulla togliere a James Blake, sono stato ben felice di essermi goduto Daði Freyr dal vivo. Ci vuole più “gente di mare” come lui nel mondo per rallegrare le nostre vite. Le bellissime foto sono di Ilaria Maiorino, le potete trovare qui. Luca Basso

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