Cose che ho ascoltato a gennaio

Qualche giorno fa ho commentato un Substack di DLSO (una delle poche cose di Instagram che mi mancano da quando l’ho abbandonato) sui dischi usciti la scorsa settimana. Scrivevo: «Se tutto il 2025 va com’è andato gennaio, io non so se arrivo alla fine dell’anno». DLSO mi ha risposto: «Gennaio è sempre un mese molto carico, se già vedi questa ultima settimana i volumi sono diminuiti. Vediamo febbraio». Il punto, però, non era la quantità, ma la qualità. Sapevamo che a gennaio sarebbero usciti certi dischi, ma non sapevamo che ci avrebbero colpito così tanto. Scrivo quindi a Matteo – padrone di casa, qui su bva – perché avevamo concordato che avrei recensito uno di questi album. Gli dico qualcosa del tipo: «So che avevo promesso quella recensione, ma gennaio è stato incredibile nel complesso. Che ne dici se scrivessi un pezzo sull’andamento dell’intero mese?». Lui accetta, anzi, rilancia: perché non farlo ogni mese? Vediamo, Matteo. Vediamo se trovo il tempo e se i prossimi mesi saranno all’altezza di gennaio. Nel frattempo, partiamo dalla fine.

L’ultima settimana del mese ci ha portato Hurry Up Tomorrow di The Weeknd, un album massimalista per durata e sound, che sfiora costantemente il rischio di saturazione senza mai oltrepassarlo. Ogni volta che questo disco mostra i muscoli, infatti, lo fa con sostanza, intrecciando i sintetizzatori dell’elettronica e le batterie dell’R&B contemporaneo in un viaggio sonoro che, senza timore di esagerare, definirei di proporzioni colossali. Concedo ai detrattori il fatto che brani come Give Me Mercy e Red Terror non siano originali quanto gli altri e non si amalgamino perfettamente al concept dell’album, ma si tratta di un abbassamento quasi impercettibile della qualità complessiva. Dopo un’ora e ventiquattro minuti di disco, la sensazione è la stessa che ho avuto lo scorso anno con Cowboy Carter di Beyoncé: che la partita fosse già chiusa, che fossimo già davanti all’AOTY. Ma ovviamente spero di sbagliarmi. Andando indietro nel mese, troviamo EUSEXUA di FKA twigs, il disco più a fuoco della sua carriera. Un equilibrio quasi perfetto – e tra qualche riga ci torniamo, su quel “quasi” – tra la sperimentazione di LP1 e MAGDALENE, la leggerezza di CAPRISONGS e un orientamento pop che la cantautrice britannica non aveva mai mostrato in modo così chiaro. L’equilibrio, per l’appunto, quasi perfetto si spezza con Childlike Things, brano in collaborazione con North West, figlia undicenne del matto con i soldi Kanye, che vuole evidentemente essere un momento di leggerezza dopo tanto sforzo nel tenere insieme pop e sperimentazione, ma che, oltre ad adombrare la successiva Striptease – una delle migliori canzoni del disco –, finisce per togliere credibilità al percorso musicale costruito fino a quel momento. Un dettaglio che comunque non mina la nuova riconoscibilità acquisita da twigs nello scenario musicale contemporaneo grazie a questo disco: non più una copia un po’ sbiadita di Björk, non più un’artista che gioca con sonorità contemporanee, ma l’interprete di un pop che non si dà per scontato grazie alla sperimentazione e di una sperimentazione che trova una struttura precisa grazie al pop. Andiamo ancora a ritroso per incontrare Balloonerism di Mac Miller, un disco postumo perfettamente rappresentato dal suo stesso titolo: dal primo all’ultimo brano, infatti, si ha la sensazione di essere all’interno di un palloncino che fluttua verso l’alto – un’immagine che potrebbe suggerire leggerezza, se non fosse per il fatto che in un ambiente chiuso come un palloncino non si respira. In questo senso è estremamente rappresentativa una coppia di brani: in Excelsior sembra di poter volteggiare tra le nuvole grazie alle note di un pianoforte delicato e alla voce divertita di Mac, ma subito dopo, in Transformations, quello stesso pianoforte diventa ricorsivo e nauseante, mentre l’alter ego del rapper, Delusional Thomas, prende la parola per ricordarci che spesso le risposte ai nostri interrogativi si trovano nell’alcol e nelle droghe. In diverse recensioni ho letto che alcuni brani di Balloonerism sembrano abbozzati. Io non ho avuto questa sensazione; piuttosto, mi è sembrato che le cose che Mac Miller aveva ancora da dire e da fare fossero così tante da faticare a stare in un solo disco. Ne è la dimostrazione il fatto che spesso la durata dei brani supera i quattro minuti. Manca, inoltre, la direzione creativa chiara che Jon Brion aveva dato a Circles, l’altro album postumo di Mac, ma in compenso in Balloonerism c’è una creatività senza limiti e l’identità del rapper statunitense emerge con estrema trasparenza. Notevolissima, infine, è Tomorrow Will Never Know, che con i suoi 11 minuti e 53 secondi ci porta ai livelli più profondi dell’anima di Mac Miller, soprattutto grazie a una produzione angosciante e rarefatta dello stesso Mac, che si conclude con la sovrapposizione tra il suono di un telefono che squilla a vuoto e le grida di bambini che giocano. Facciamo un altro passo indietro e, a proposito di angoscia e profondità, arriviamo a Perverts di Ethel Cain, un cambio radicale rispetto alle atmosfere più convenzionali dei suoi lavori precedenti. Il dark ambient si fa sfacciato, affonda le sue radici nell’intero disco attraverso voci e strumenti distorti, ma in alcuni momenti sembra compiacersi un po’ troppo di se stesso: si pensi a Houseofpsychoticwomn, con i suoi 13 minuti e 35 secondi di distorsioni incessanti e gli “I love you” ripetuti fino allo sfinimento. In ogni caso, questo cambio di rotta ha dato un’identità più solida alla musica della cantautrice americana, che più che un album realizza un’esperienza sinestetica: ascoltandolo, la mente genera immagini simili a frame di Eraserhead di David Lynch. Il prossimo passo indietro ci porta a Porto Rico, fonte d’ispirazione per Bad Bunny nella composizione del suo nuovo disco, Debí tirar más fotos. La quantità di riferimenti alla musica tradizionale portoricana non è solo un valore aggiunto di per sé, ma permette anche di apprezzare ancora di più il genere in cui Bad Bunny si muove con maggiore disinvoltura: il reggaeton. La ricchezza sonora che ne deriva rende la sua musica più accessibile rispetto a Nadie sabe lo que va a pasar mañana, il disco precedente, che invece soffriva di un’eccessiva densità dovuta alla massiccia presenza di sonorità reggaeton e trap. Certamente i brani con un’impronta smaccatamente reggaeton rimangono – basti pensare a Perfurmito nuevo – e, non per l’onta che pesa sul genere, ma rappresentano i momenti meno interessanti del disco. Ogni regola, però, ha le sue eccezioni, e in questo senso è innegabile che brani come Nuevayol e Voy a llevarte pa PR, pur ispirandosi meno di altri alla musica tradizionale portoricana, siano prodotti con grande cura. La vera sorpresa, però, ce l’ha fatta Liberato, che alla mezzanotte del primo giorno dell’anno ha pubblicato il suo nuovo disco, che, per tradizione, non poteva che chiamarsi LIBERATO III. Probabilmente dirò un’eresia per i fan dell’artista napoletano, ma credo che questo sia il miglior album della sua discografia: quello con il sound più internazionale, in cui le produzioni raggiungono un livello di maturità inedito e l’anima elettronica si esprime con maggiore apertura, passando dal french touch di TURNÀ alla drum and bass di ‘A FOTOGRAFIA, che cita addirittura Napoli milionaria! – commedia del 1945 di Eduardo De Filippo – e all’elettropop di LUCIA (STAY WITH ME). Il respiro che attraversa questo disco è talmente internazionale che si vorrebbe sentire qualcosa di più della semplice capacità di Liberato di interpretare bene i generi che esplora, e in questo senso mi aspetto che nel prossimo disco l’artista napoletano osi di più. Mentre scrivevo questo lungo commento, ho scoperto che è uscita quella che JPEGMAFIA ha definito la DIRECTOR’S CUT del suo disco del 2024, I LAY DOWN MY LIFE FOR YOU. Lo dica, la divinità della musica, che all’inizio di marzo mi vuole di nuovo qui, a scrivere cinque pagine di Google Docs sull’andamento di febbraio. Certo è che, se la qualità sarà quella di gennaio, ci si prende pure gusto.

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