Continua qui il racconto del Primavera Sound 2024 iniziato in questo articolo, nel caso ve lo foste perso.
Jai Paul (Matteo Russo)
Non si può parlare di Jai Paul senza contestualizzare perché sia stato così importante come nome nella proposta di quest’anno. Jai era un normalissimo ragazzo inglese di origini indiane nel 2011, quando decise di caricare BTSTU su MySpace (sì, quel MySpace): un pezzo che sembrerebbe avveniristico fosse uscito oggi, figuriamoci all’epoca. Il pezzo esplode su internet, gli artisti se ne accorgono in primis, tanto che nomi del calibro di Lorde, James Blake e BROCKHAMPTON dichiararono che senza Jai Paul la loro musica non sarebbe stata la stessa, e dei certi Drake e Beyoncé usarono proprio BTSTU come base campionata in dei loro pezzi. Poi per un furto del suo PC contenente il suo album di debutto e un conseguente leak dello stesso, Jai si distacca come figura pubblica e il progetto sembra destinato a rimanere avvolto nella leggenda. Passano quasi 10 anni e Jai decide di fare il suo primo concerto (!) l’anno scorso al Coachella, con una dimostrazione di affetto da parte del suo pubblico che aveva del commuovente.
Passa un anno e una scarsa manciata di altri concerti tra New York e Londra e Jai Paul sbarca per la prima volta in Spagna, in un palco parzialmente svuotato dal fiume di persone che in quel momento era alle prese con la scarsissima voglia di performare di Lana Del Rey. Ne approfitto per infilarmi in prima fila e lì mi ritrovo nel mezzo di un raduno del canale Discord del Primavera Sound, composto da persone chronically online; mi sento a casa. Il concerto poi inizia e non si capisce se il più emozionato fossi io o Jai Paul stesso, ancora evidentemente non abituato a fare musica dal vivo. La sua discografia è ovviamente scarna e consiste quasi solo dell’album leaked che col tempo ha deciso di pubblicare anche in streaming, anche se con molti pezzi non masterizzati. E così si è materializzato il sogno di migliaia di fan che fino a pochissmo tempo prima nemmeno prendevano più in considerazione la possibilità di sentire davanti a loro suonate Jasmine o Str8 Outta Mumbai. Tra il mito e la realtà, c’è la timidezza.
VOTO: 7,5
Barry Can’t Swim (Matteo Russo)
C’è della poesia nel landscape che regala il palco sponsorizzato da Cupra al parco del forum la notte: una sorta di moderno anfiteatro che da le spalle al mare, con gradinate tanto ambite al pubblico che ci arriva dopo ore senza la possibilità di sedersi. Normalmente il contesto perfetto per ascoltare un concerto rilassante ed evocativo. Di evocativo c’era molto, di rilassante un po’ meno nel set di Barry Can’t Swim, un ragazzo dall’accento spiccatamente scozzese che ha da pochissimo iniziato a suonare sotto questo nome. Le influenze del progetto sono chiare, per alcuni quasi troppo: aspettatevi di vedere in scala un concerto di Fred again.. con qualche strumento sul palco in stampo Caribou. Facile a dirsi, meno facile realizzare un coinvolgimento emotivo simile al fenomeno del momento. Eppure dal vivo funziona benissimo: ti lascia il tempo di ballare senza freni con Kimbara, per farti venire la pelle d’oca con Woman e persino creare un momento gospel a tema concerti portando sul palco l’amico somedeadbeat. L’elettronica sentimentalista ci piace, datecene di più.
VOTO: 7,5
Lankum (Antonio Genovese)
Quanto si può sperimentare con la tradizione senza che di questa se ne perda l’essenza? A questa domanda provano a rispondere i Lankum, band irlandese nata e cresciuta a Dublino. Il gruppo non si limita a raccogliere e riarrangiare canzoni della tradizione gaelica, ma le fa proprie donandole una forma organica, aderente al loro modo di fare musica: ogni canzone inizia in sordina, con la voce di un membro del gruppo che prende l’iniziativa stagliandosi sul silenzio; lentamente si aggiunge uno strumento dopo l’altro, e poi le altre voci, in crescendo corale che da vita a code incredibilmente lunghe e articolate, con il folk tradizionale che si trasforma quasi in post rock. È un’operazione necessaria e coraggiosa, che aiuta il passato a non sbiadire e a renderlo attuale. Non si tratta di un’ operazione nostalgia perché i Lankum, dal vivo, incarnano alla perfezione lo spirito irlandese trapiantato ai nostri giorni. Sono fieri indipendentisti, ma non si aggrappano soltanto a temi del passato: parlano della frustrazione che provano nell’avere ancora una certa sudditanza psicologica nei confronti del governo britannico, ma discutono anche della questione palestinese apertamente (gli unici tra le band presenti al Primavera a non glissare sulla questione o a non approcciarci soltanto con messaggi simbolici). I temi che le canzoni tradizionali irlandesi dipingono non restano sullo sfondo, ma prendono vita qui ed ora, temi universali che cambiano soggetto. E loro, da bravi irlandesi, riescono a rendere questo passaggio reale, grazie allo storytelling che li contraddistingue.
VOTO: 8
070 Shake (Marco Bisceglie)
Arriva anche per me l’ultimo giorno di festival e la tabella di marcia prevede, questa volta, di spendere diverse ore a Mordor, al Main Stage.
Si inizia subito alle 19:30 per un’artista che pensavo potesse rivelarsi una piccola sorpresa all’interno di questo giorno. Non sono mai stato un grande fan di 070 Shake, ma ho spesso ascoltato le sue hit maggiori come Guilty Coscience, Cocoon e Black Dress.
Pronti via e si comincia subito male: l’audio è uno schifo. Ci sarebbero forse parole più adatte a schifo, ma non consone a un articolo. E’ distortisissimo, con bassi che sfondano timpani e tutto ciò che ne consegue e lei neanche se ne rende conto.
Accade però un miracolo degno di possibile indagine della fisica moderna: le mie orecchie riescono ad abituarsi all’inferno che proviene dal palco e a filtrare quel di decente che c’è nella performance. Ovvero quasi nulla.
Il vero miracolo, cioè che lei effettivamente si accorga che tra autotune, note stonate e acustica non pervenuta mezza folla vorrebbe chiamare il 900 925 555, però non accade. Anzi.
Sembra infatti che 070 Shake si sia autoconvinta di essere diventata una via di mezzo tra Death Grips e Travis Scott, gasandosi così tanto da urlare randomicamente al microfono “Abrir circulo” “Abrir circulo!” “ABRIR CIRCULO!” con l’effetto di creare i moshpit (se così si potevano definire) meno sensati che abbia mai visto nella mia vita.
Ma andiamo con ordine, vi avevo parlato di tre canzoni: Cocoon, Black Dress e Guilty Coscience. La prima è al limite del non giudicabile date le condizioni, mentre nutrivo un minimo di aspettative per la seconda che necessitava di meno sforzo per essere eseguita (oltre che essere delle tre quella che volevo sentire di più). Niente da fare, la resa della canzone è moscissima, con zero espressione e tono, privata di ogni energia. Paragonabile, per risultato e delusione, al cappuccino che mi è stato servito a un bar a Londra. Ma almeno lì me lo aspettavo.
Ultima possibilità di redenzione, di riscattare un set così orrendo: parte Guilty Coscience, ultima canzone. Sembra incredibilmente procedere tutto bene, ma all’improvviso il microfono non va più, le luci si spengono e idem le casse. Si è spento tutto.
Il motivo? La suddetta fenomena a furia di “abrir circuli” ogni 3×2 e ad allungare tremendamente le intro, è andata oltre di 15 minuti il suo tempo massimo. Ed è così che mentre il palco Santander viene preparato per PJ Harvey, 070 Shake cerca goffamente di terminare la canzone ai rimasti per poi buttare giù il microfono. Verrebbe da ridere, se non fosse che ha appena cominciato a piovere e che grazie a ciò PJ Harvey suonerà 4 canzoni in meno. (VATTENE VIA) NUN TE VOJO PIU’ VEDE’.
VOTO: 3
Liberato (Matteo Russo)
Per Liberato ero carico a pallettoni: fresco di documentario visto al cinema il 9 maggio, con una maglia tutto meno che originale del Napoli comprata su vinted in condizioni pietose e pronto a portare in alto le mie origini partenopee in suolo catalano. Poi arrivano le nuvole, con le nuvole arriva la pioggia e con la pioggia compare lui, ovviamente a viso coperto e con una bandiera palestinese esposta sul palco. C’è tanto calore tra il pubblico più italiano mai visto al Primavera, lui lo percepisce subito e parte a mille: “Primavera, facimm o’ sfacimm ro burdell, sì o no?”. La risposta – scontata – la si sente da un pubblico esaltato dalle condizioni atmosferiche avverse, troppo impegnato a urlare TU T’E SCURDAT’ ‘E ME e ME STAJE APPENNENN’ AMO per accorgersene davvero. Liberato si è preso Barcellona e lo ha fatto parlando napoletano.
VOTO: 8,5
PJ Harvey (Marco Bisceglie)
Alla fine quello che più temevo accade e dopo anni di anni di sole, caldo e brezza ecco anche il ritorno della pioggia al Primavera Sound. E sfortunatamente no, non è una pioggia leggera, tant’è che tra imprecazioni varie prendo in tempo zero l’impermeabile per evitare di diventare subito una spugna umana ed esco seppur controvoglia dalle prime file.
Smaltito lo stizzo per le condizioni meteo e la tortura precedente di 070 Shake, con un bicchiere di Pepsi in mano e un po’ di small talk con il mio amico Tommaso, durante tutto il concerto mi rimane un pensiero fisso in testa: “cazzo che figata”.
La pioggia battente riesce ad elevare una performance già meravigliosa e a sublimarla e diventa quasi un elemento coreografico aggiuntivo alla movenze di PJ Harvey.
Tuttavia, del suo set rimaneva un dubbio importante. In questo lasso di tempo sarebbe riuscita a trovare spazio anche per le sue hit storiche? Prima di dirigerci verso il festival avevo fatto un mini-sondaggio all’interno del gruppo e le opinioni erano un po’ spaccate, normale visto che la sua discografia è enorme.
Risposta alla domanda? Affermativa. Dov’ero io quando ha cominciato a farle? Ovviamente in bagno. Appena sento le prime note di Down by the Water però non ci sono bisogni che tengano, spalanco la porta, mi prendo tutta l’acqua del mondo e mi riprecipito sotto il palco, godendomi anche To Bring You My Love che chiude il concerto.
Consiglio spassionato: vedetevi il live integrale pubblicato sul canale del Primavera, ne vale la pena. Lo avrò rivisto almeno quattro volte. ETEREA.
VOTO: 8,5
Mitski (Matteo Russo)
Usciti da Liberato, ci rendiamo finalmente conto dei nostri vestiti ormai zuppi e ci incamminiamo verso il palco in cui suonerà Mitski. Le aspettative erano alte: la sua musica mi tocca nervi scoperti anche quando sentita in cuffia, la collego a un periodo delicato della mia vita personale e tutto quello che avevo sentito da chi avesse già visto una data di questo tour faceva sperare in qualcosa di speciale. Il concerto poi inizia e la performance è a dir poco teatrale: lei si muove con movimenti e balli tanto sgraziati quanto precisi nell’esecuzione, la voce è bella quasi più che in studio e al resto ci ha pensato il temporale che apriva il cielo con dei lampi che qualche fortunato fotografo ha catturato nel corso del concerto. Mitski parla poco, ma quando lo fa lascia trasparire un’autenticità e una dolcezza rara, confessandoci un amore quasi materno nei nostri confronti. Un’ora e mezza che rimarranno nel mio cuore per sempre. Stellare.
VOTO: 9
Róisín Murphy (Antonio Genovese)
Immaginate di ritrovarvi all’ una e mezza del mattino bagnati e infreddoliti, dopo due ore ininterrotte di pioggia. Avete già cambiato due magliette, siete stanchi e vorreste tornare a casa per riposarvi, perché domani avete il volo per tornare in Italia. Ma siete qui ormai, e l’idea di non spolpare ogni secondo di musica disponibile non è contemplabile; così vi trascinate verso uno dei due main stage, perché magari pensate lì ci possa essere la roba più interessante, o perché c’è qualche artista che vi stuzzica che sta sparando le ultime cartucce della setlist sul palco adiacente, o forse perché due mesi fa vi è capitato di inciampare in una o due canzoni di chi suonerà dopo e siete incuriositi. Per me queste tre motivazioni hanno coinciso, ed è così che mi sono ritrovato in quinta fila per il concerto di Róisín Murphy.
La mia maglietta da calcio dell’ Irlanda viene celebrata da tanti, e un rapido check online mi rivela che l’ex voce dei Moloko è irlandese: mi sembra un buon motivo per restare. E il concerto si rivela tutto quello che si potrebbe desiderare per chiudere un’esperienza al Primavera: è un susseguirsi di motivi dance, house, funk; un’ immersione totale nella storia della dancefloor, vista con gli occhi di una cinquantenne che ha vissuto quella scena in prima persona negli anni ’90, da fruitrice prima che da produttrice. Una cinquantenne che però non ha mai smesso di aggiornare le proprie sonorità, che si prende il suo tempo per ogni pubblicazione, che fa delle continue collaborazioni con altri artisti il suo punto di forza. Tutto si consuma in un’ atmosfera di spensieratezza, di gioia condivisa, senza ansie da prima fila o eccessi di sorta. Sì è lì, contenti di ballare insieme, di lasciarsi andare per un breve momento, davanti a schermi che mostrano una Murphy a suo agio nell’alternare momenti giocosi a situazioni più intime, senza mai esagerare nel prendersi sul serio. Ne è un esempio il punto più alto del concerto: il dittico finale I can’t replicate – Ramalama mostra prima una Murphy che si mette a nudo, con i suoi occhi azzurri fissi in camera che sembrano analizzarci ai raggi X, anche se filtrati in bianco e nero; con le sue mani che scorrono sul volto e poi sul collo, fino a fermarsi sul petto, all’ altezza del cuore, simbolicamente mettendo a nudo la sua vulnerabilità emotiva. Poi, con Ramalama veniamo proiettati nel nonsense totale, alle immagini conturbanti del suo volto si sostituisce una sfilza di animali in forma animata, dei Looney Toons psichedelici che si alternano mentre la sua voce si srotola su un ritornello ripetitivo, quasi onomatopeico.
Il concerto di Róisín Murphy ha incarnato tutto quello che ho amato della mia prima esperienza al Primavera: la voglia di sperimentare, di scoprire e fare scoprire musica nuova alle persone; la possibilità di essere in un auditorium ad ascoltare una piece per orchestra dieci minuti prima e di ballare sulla dancefloor dieci minuti dopo; la possibilità, insomma, di sentirsi uniti e vivi nella musica, perché la musica diventa solo un veicolo per aprirsi a nuove esperienze.
VOTO: 7,5
Romy (Marco Bisceglie)
Giungiamo ora a uno snodo importante del mio Primavera, perché Romy è una delle artiste che più ero curioso di vedere in questa edizione. Sono cresciuto come tanti con la musica degli xx e, oltre allo straordinario Jamie al Primavera 2022, finalmente avrei avuto la possibilità di vedere dal vivo anche il progetto solista della loro cantante.
Gran parte del set ovviamente ruota attorno al recentissimo Mid Air, non mancano ovviamente i momenti “cover” come ad esempio Angels (una delle mie canzoni preferite degli xx), ma veniamo al dunque: com’è stato?
In parole povere, il mio concerto preferito di questa edizione. E’ difficile convertire in parole quelle che sono state le mie sensazioni e le mie emozioni provate in quell’ora e cinque minuti. Ho visto tante performance in questi anni, ma mai ho visto un’artista così felice di essere qui a suonare al Primavera Sound. Lo si poteva leggere nei suoi occhi, nelle sue movenze, nel modo in cui lascia che la sua testa segue le note di ogni canzone come se le avesse appena scritte, e anche quando durante The Sea finalmente realizza di eseguire questa canzone davanti a un vero mare (it’s amazing to play that song…and literally be looking at the sea, that’s pretty amazing!).
Per il resto, immagino che vogliate sapere di me. Beh, io stavo fluttuando. “Protetto” dall’avere ancora addosso gli occhiali da sole, ogni tanto mi concedevo di chiudere gli occhi e lasciarmi anch’io cullare dalle note di She’s on My Mind, Did I, Enjoy Your Life e il nuovissimo singolo Always Forever.
Si giunge poi all’ultima canzone del set, Strong. Questa è una canzone che aspettavo di sentire da quasi un anno, sin dall’uscita mi aveva colpito e più i mesi passavano più cresceva la voglia di sentirla dal vivo: ovviamente neanche questa volta sono stato deluso.
Tantissimi sono i cori “ROMY, ROMY, ROMY!” a cui lei risponde emozionata salutando e ponendosi la mano sul petto, quindi non è sorpresa che alle prime note vadano già tutti pazzi.
Io prima di partire per Barcellona per la verità avevo provato un po’ a immaginare come sarebbe stato cantare il ritornello “You don’t to have to bee sooo strongggg” non più nella mia camera ma insieme a un fiume di persone, ma la realizzazione come spesso accade batte anche l’immaginazione.
E così termina il suo Primavera 2024 anche Romy e io, al contempo, ho perso tutte le energie che avevo. Peccato che dopo c’è Charli. God save me. I LOVE YOU ALWAYS FOREVER.
VOTO: 9
Charli xcx (Marco Bisceglie)
Eventi scombussolati e problematici ne sono accaduti in questa edizione del Primavera, ma rimanere quasi senza energie per il concerto conclusivo del festival di Charli xcx sarebbe quasi una tragedia.
Con Charli e la sua musica ho avuto un rapporto un po’ frastagliato: in generale, non mi aveva mai fatto impazzire. Nessun album, con l’eccezione di qualche canzone qua e là, mi aveva mai detto granché e non capivo mai da dove venisse tutto l’hype per lei.
Dopo un fast-forward di diversi anni posso però dire che sì, adesso ho decisamente capito dove venisse.
Per inciso, non siamo ancora nell’era brat. L’album uscirà infatti circa cinque giorni dopo e questo è l’ultimo concerto prima che ogni cosa colorata di verde sia un riferimento alla popstar britannica. Charli illumina lo stage con 360 e mi renderà impresso nella mente il verso “i’m everywhere, i’m so Julia!”, debutta così col botto una nuova canzone intitolata Everything is romantic che diventerà una delle mie preferite dopo neanche dieci giorni, spara a tutta quella meravigliosa mina di track 10 di cui diventerò dipendente per diverso tempo e fa vibrare ogni angolo dello stage con Von dutch.
Nei video da me catturati traccia di Charli non c’è quasi mai: un po’ per la distanza, un po’ per la coreografia del concerto e un po’ per la stessa Charli che balza tra una parte e l’altra dello stage talmente tanto che le stesse camere fanno fatica a tenere il suo passo.
A prendere la scena però è il giallo che accade dopo un’ora dall’inizio: accade infatti che dopo I love it, celebre hit che la portò alle orecchie di tutti nelle radio del 2013, il concerto sembra terminare. Charli lascia lo stage, le coreografie terminano, le grafiche sugli schermi si spengono e tutti pensano a un encore tanto che il coro “One more song!” suona all’unisono in tutto il Parc del Forum.
Del resto, la timetable dice specificamente che il concerto sarebbe partito alle 2:30 e sarebbe finito alle 3:50, sono circa le 3:30 e mancherebbe venti minuti.
Sarà così? No, perché Charli sullo stage non si presenterà più. È tutto finito inspiegabilmente 20-25 minuti prima senza avviso, senza un vero saluto, senza il congedo che tutto il Primavera si sarebbe meritato dopo questi tre giorni.
Al netto di una setlist oggettivamente un po’ scarna, con una sola canzone (part 4 you) degli ultimi due album, questa brusca conclusione sa proprio di amaro in una performance che avrebbe dovuto e potuto chiudere alla perfezione il festival.
E invece, ci riesce solo a metà.
VOTO: 7
E così ci troviamo alla fine del viaggio, quasi senza renderci conto della settimana assurda che abbiamo appena vissuto, con la testa che ragiona sui nomi che vorremmo chiamassero l’anno prossimo e il cuore ancora vagante per le vie del Forum, ancora trafficate di fan invasati di qualsivoglia band si possa immaginare. La vita deve passare da queste parentesi felici, e il mio augurio a voi che leggete è quello di trovarci tra quelle stesse vie per vivere insieme un’altra edizione, perché siate certi che noi ci saremo.