Dopo tre anni di presenze consecutive al Primavera Sound, l’aria di Barcellona inizia ad esserti familiare: guardi commosso l’immensità reverenziale del Parc Del Forum dal finestrino dell’aereo sul punto di atterrare, predici i tempi di trasporto dall’aeroporto al centro città con più precisione di quanto indichi Google Maps e sai già dove sia lo scaffale con sopra il tuo succo iperzuccherato preferito al Mercadona di fiducia. Ti fermi a pensare a quanto sia cambiato nella tua vita dall’ultima volta in cui hai calpestato quelle scale della metro Besos Mar e ti accorgi di come tutto cambi pur rimanendo tutto uguale. È arrivata quella settimana dell’anno, le preoccupazioni sono rimaste nella valigia che hai deciso di non imbarcare per risparmiare i 50 euro che chiedeva Ryanair. Sei dannatamente felice.
L’anno scorso vi ho portato insieme a me con un diario di bordo personale che raccontava passo dopo passo le mie avventure tra gli infiniti palchi che offre il festival. Quest’anno proverò a riassumere tutto in una formula che il Primavera stesso mi ha aiutato ad amare: condividendo esperienze con dei miei amici. Questo articolo sarà scritto a sei mani insieme ad Antonio Genovese e Marco Bisceglie, che avete già avuto modo di conoscere nella breve ma intensa storia di questo sito. Ognuno di noi avrà una manciata di concerti da analizzare e valutare a modo suo.
The National (Antonio Genovese)
Sì può essere obiettivi nella recensione di un live se il tuo cantante preferito, della tua band preferita, passa buona parte del concerto abbracciandoti, sudandoti addosso, rischiando di seppellirti sotto il suo metro e novantacinque di altezza? Sì può essere obiettivi se ti concede di cantare (urlare sarebbe più appropriato) due o tre versi di England, un posto che è stato parte della tua vita negli ultimi otto mesi?
La risposta è sì, perché chiunque fosse presente al Razzmatazz il 29 maggio può raccontare di aver assistito alla miglior versione della carriera dei National. Una band che ormai riesce ad andare col pilota automatico, i cui membri sanno esattamente come interagire tra loro e con il pubblico, senza per questo perdere quella spontaneità e gioia di suonare: Aaron e Bryce Dessner giocano con le loro chitarre come se ne scoprissero le potenzialità per la prima volta, divertendosi ad allungare le code di pezzi incendiari come Smoke Detector, su cui Matt Berninger può continuare a biascicare durante gli oltre otto minuti di canzone. È su di lui che ricadono gli sguardi di tutti. Per quanto i National siano una band corale, in cui tutti i membri partecipano alla fase compositiva e hanno un’impronta riconoscibile, durante il live gli occhi sono inevitabilmente avidi del frontman: lo seguono, lo cercano quando lo perdono in una delle sue scorribande tra il pubblico, dove il suo volto cerca di nascondersi tra le spalle e i capelli delle persone in prima, seconda e terza fila. E nel primo live di questo tour estivo lo fa costantemente, forse proprio galvanizzato dall’ entusiasmo per la prima data (spoiler: l’ho visto una settimana dopo a Roma, e il trasporto è stato lo stesso) o dalla dimensione raccolta della venue. Il paragone con il Matt Berninger di due anni prima, dimesso, quasi impaurito del contatto con i fan, è impietoso. Un live dei National è diventato un momento di catarsi collettiva in cui perdersi e ritrovarsi, un luogo in cui il muro del suono viene abbattuto su pezzi come Abel (molti), o dove ad essere abbattute sono tutte le barriere emotive, come accade sul crescendo baritonale di About Today (forse un po’ pochi a causa di una scaletta che ha prediletto pezzi più muscolari). Il momento finale è dove quella catarsi si scioglie: la band diventa pubblico e il pubblico band per cantare insieme sulle note di Vanderlyle Crybaby Geeks con il microfono posizionato in prima fila in direzione dei fan e Matt, con la giacca nuovamente indosso per il gran finale, a fare da direttore d’orchestra e mimare i versi della canzone.
VOTO: 9
The Dare (Matteo Russo)
Ormai lo sappiamo: il Primavera Sound è anche un palcoscenico per fare esplodere nuove generazioni di musicisti. E quale esempio migliore dello show in Sala Apolo alle 2 del mattino di Harrison Patrick Smith – in arte The Dare – progetto di un incravattato e sbarbato newyorkese che tanto deve della sua estetica al mio amato James Murphy degli LCD Soundsystem. Nella sua musica c’è l’esaltazione dell’eccesso usando uno stile che si sposa molto bene con il fresco d’uscita BRAT di Charli XCX, per cui ha anche curato la produzione di Guess. Il concerto poi è una bomba: un impero di synth spinti all’inverosimile, drop con bassi esagerati e crowd surfing sul finale su un pezzo in cui urla “They say i’m too f***ing horny, wanna put me in a cage”. Segnatevi il nome, perché di questo ne riparleremo molto presto.
VOTO: 8
William Basinski: The disintegration loops (Antonio Genovese)
Premessa: replicare un’ opera come i Disintegration Loops è impresa ardua, “specialmente se non sei Max Richter”, come sottolineato da William Basinski, salito sul palco al termine della performance per ricevere il riconoscimento del pubblico. Qualcosa, nella resa live dell’ opera, andrà inevitabilmente persa, tecnicamente o concettualmente.
Mi ha sempre affascinato come nell’ opera si arrivasse dal punto A al punto B senza rendersene conto, come le note lentamente sbiadissero o si accattocciarsero su loro stesse di soppiatto, fin quando il nostro orecchio non si fosse accorto della variazione, facendocelo notare. E come questo momento fosse diverso da persona a persona e di ascolto in ascolto. Proprio come quando si prende coscienza di sé stessi in un determinato momento della vita e ci si guarda alle spalle, tirando le somme e domandandosi dov’è andato il tempo.
Tutto questo, all’auditorium, non si percepisce: contrarre l’esecuzione in trenta minuti ha compresso il tragitto da A a B, creando piccole tappe intermedie che fungessero da punti di riferimento. Con l’orchestra è andata persa anche l’atmosfera di fondo, che su disco si fa via via più rarefatta fino a farci ritrovare in una dimensione diversa da quella iniziale; qui invece la sensazione è quella di star assistendo a un movimento organico che prende le sembianze di una marcetta quando ci si avvicina alla fine dell’ esecuzione. Resta agli occhi, allora, il compito di lasciarsi affascinare: quelli di una persona non abituata ai concerti di musica classica restano rapiti dai movimenti della direttrice d’orchestra, dalle piccole e infinitesimali variazioni nel modo e nella velocità con cui il braccio va su e torna giù. È lì che si può trovare qualche residuo dell’ ipnoticità dei Disintegration Loops.
VOTO: 6
Vampire Weekend (Matteo Russo)
Ho sentito dire che il concerto dei Vampire Weekend sia stato “un normalissimo concerto dei Vampire Weekend”. Difficile per me confermarlo non avendone (ancora) visti altri, ma quello che hanno portato Ezra Koenig e compagni sul palco è una festa di strumenti che si aggrovigliano tra loro formando quasi per contrappasso un suono sempre fresco, felice e spensierato. Ogni singolo pezzo è una hit da ascoltare in radio col finestrino abbassato in un paesaggio verde e sconfinato: dalle nuove Capricorn e Gen-X Cops alle classiche Cape Cod Kwassa Kwassa, A-Punk e Worship You, passando poi per le delicatissime Harmony Hall e This Life. Ce n’è davvero per tutti: è stata una grande celebrazione alla vita da una band che non sembra volere smettere di farci sognare ad occhi aperti.
VOTO: 9
Lambchop (Antonio Genovese)
L’auditorium è un monolite a forma di parallelepipedo. Ha poltroncine spigolose color blu scuro e il soffitto tendente al nero. Entrarvi dentro vuol dire farsi strada in una dimensione parallela rispetto al mood del Primavera, fatto di corse frenetiche, chiacchiere continue e luce naturale. Dentro l’auditorium l’unica fonte luminosa proviene dai fari piantati sul palco, e la somiglianza al mondo esterno dipende da quanto gli artisti vogliano ricreare in maniera artificiale le vibes di quello che c’è fuori. Kurt Wagner, l’uomo dietro il progetto Lambchop, non sembra interessato a questo, quanto piuttosto ad accentuare la sensazione del pubblico di trovarsi in una dimensione a parte.
Quando sale sul palco tutto diventa nero, ad eccezione di due coni sottili di luce bianca a fare luce su di lui e sul pianista che lo accompagna. Non ci sono altri strumenti, non ci sono trucchi o effetti speciali. È tutto lì, in una voce calda e in un pianoforte che riempie il vuoto che normalmente dovrebbe esserci tra due canzoni. Non è un concerto, ma il flusso di coscienza musicale dell’autore, che va dritto per la sua strada. È la performance che più si avvicina all’ esecuzione di un componimento di musica classica, fatto però di canzoni alt-country e folk riarrangiate per l’occasione. A dire il vero c’è un altro strumento invisibile all’ opera: il silenzio. Un silenzio che addensa l’aria attorno alle parole, tra un tasto pigiato e l’altro. Qualcosa che dà ancor più valore a ogni nota suonata, ad ogni piccola inflessione della voce di Wagner. Qualcosa che impedisce al pubblico di applaudire, perché questo è anche un silenzio di attesa per le parole che verranno subito dopo. C’è un filo tematico che collega tutto il concerto, trasformato in un’ unica grande canzone sul rimpianto e sulla malinconia per il tempo che passa.
E intanto la nostra mente è libera di vagare, di andare da un pensiero all’ altro guardandoci indietro e commuovendoci per quello che è stato e quello che avrebbe potuto essere, proprio come Lambchop sembra aver fatto nel suo ultimo lavoro The Bible.
VOTO: 8
The Last Dinner Party (Marco Bisceglie)
Quest’edizione del Primavera è diversa per me rispetto a tutte le altre.
Sarà per gli artisti presenti dite voi? No. Sarà per come è equilibrata la lineup? No. Sarà per (spoiler alert!) la pioggia che torna al festival dopo dieci anni? Nemmeno!
Il motivo è che da gran citrone che sono ho perso l’aereo il giovedì mattina e son dovuto arrivare il giorno dopo, quindi parte degli artisti che vi racconteranno Matteo e Antonio io li ho visti in una fredda e distaccata streaming di Twitch.
Ma il destino mi ha riservato che ad aprire il mio Primavera fossero le Last Dinner Party, gruppo che ho scoperto negli ultimi mesi del 2023 e di cui ho fatto il loro debut album Prelude to Ecstasy la mia unica bibbia che conosco.
Magari lo avrete già capito, ma in questa recensione sarò un po’ di parte, anche perché avevo già avuto modo di vederle dal vivo qualche mese prima al Santeria Toscana a Milano. Ciò però non mi ferma da argomentare il perché io sia entrato così sintonia con la band e con il suo pubblico.
Seppur infatti parliamo di un solo album, tutte e cinque i membri del gruppo sembra come se suonassero da anni e anni.
La leadsinger Abigail Morris mostra una sicurezza e una caparbietà fuori dal comune considerando che è alla sua prima volta al festival, riuscendo a cantare e duettare assieme alle bassiste Georgia Davies e Emily Roberts senza mai perdere un colpo, oltre a coinvolgere tutto il pubblico come se facessero parte tutti di una grande famiglia.
La band si mostra al proprio agio anche nei momenti più emozionanti del concerto come quando suonano slow ballad come On Your Side e Beautiful Boy, delizia i fan più fedeli con inediti come Second Best e termina il concerto con Nothing Matters, la canzone con cui li ho scoperti e che per come viene cantata dal pubblico sembra come se fosse un inno nazionale (e un po’ in fondo lo è…)
Unico piccolo neo è che stiamo parlando di una esibizione di circa 45 minuti, un po’ pochino, ma in fondo stiamo parlando di una band che ha solo un album all’attivo. Non entrerà magari nella mia super-top di questo Primavera, ma è sicuramente un bel modo di iniziare il mio festival. FAMILIA.
VOTO: 7,5
Lana del Rey (Antonio Genovese)
C’è un fiume di corpi che si dirige dai palchi secondari al Santander. È un fiume lento, nato nel tardo pomeriggio e ingrossatosi rapidamente nelle prime ore della sera. Gli steward del primavera fanno da argine, contingendatone il flusso per evitare il possibile caos. Più ci si avvicina al palco e più gli spazi si fanno ristretti, come ad ogni concerto; eppure qui ci si rende conto che già a 100 metri le distanze tra i corpi si fanno larghe quanto uno spillo, ed è quasi impossibile andare oltre. È il giorno di Lana del Rey, il giorno del Primavera andato sold out per lei. C’è, come ovvio, attesa nell’aria, che però diventa presto frustrazione, man mano che i minuti passano senza che nessuno salga sul palco. Spesso si dice che gli artisti debbano farsi attendere, essere “elegantemente in ritardo”, ma quando hai uno slot di poco più di un’ora e mezza e non ti sono concesse deroghe, ogni cinque minuti persi si traducono in una canzone in meno. Arrivare con 25 minuti di ritardo, allora, significa privare il pubblico di un quarto di concerto.
A Lana del Rey tutto questo non sembra importare, e alle 21.15 sale con tutta calma sul palco, con un sorriso sornione e nessuna scusa pronunciata. Sorride, e nel mentre inizia a cantare con un microfono che non funziona come dovrebbe: la voce è flebile e si perde nelle distanze immense della venue; sorride mentre il pubblico canta per lei delle canzoni accorciate per far stare la scaletta (breve) nei tempi concordati; sorride mentre ballerine e ballerini sul palco danzano per lei, su coreografie che la vedono passeggiare da un lato all’altro della piattaforma, lo sforzo più grande quello di salire scale e salutare da un finto balcone; sorride mentre sugli schermi vengono ripresi i fan che urlano le parole di una sua canzone o semplicemente il suo nome, piangono di gioia per un momento che ricorderanno negli anni. È surreale e un po’ triste la distanza che percepisco tra le emozioni sul volto dei fan di Lana e il suo apparente distacco, il modo in cui si gode quel momento senza sembrare davvero coinvolta. Mi sposto verso la zona esterna del palco per avvicinarmi a quello adiacente, dove suoneranno altri artisti più tardi: qui la gente è rilassata, stesa sul prato e si gode il concerto come fosse un sottofondo da ascensore, e mi domando se non sia l’approccio giusto in questo caso, dare in cambio l’amore che si pensa di star ricevendo. E mentre il concerto si chiude sulle note di It’s just a burning Memory dei Caretaker, Lana si gode gli abbracci dei fan delle prime file, perché il suo lavoro lì è finito. Mi viene in mente il meme del ragazzo mascherato in Sailor Moon, pensando “ma non hai fatto niente”.
VOTO: 4
Faye Webster (Matteo Russo)
Quello di Faye è un concerto che non dovevo nemmeno vedere: allo stesso orario suonavano poco più in là i BADBADNOTGOOD e in quegli stessi istanti fiumi di persone si dirigevano nell’area dei palchi più grandi per urlare stonati Summertime Sadness e rovinare i video della persona davanti a loro irrimediabilmente. In questo scenario da parcheggio in un film post apocalittico sotto il palco vedo un comodo spazio in transenna proprio per il concerto della Webster, che si rivela essere esattamente quello che volevo in quel momento: chitarrine, una voce dolcissima insieme a una live band che non aveva paura di andare in jam tra un pezzo e l’altro. Ah, e tutto questo al tramonto: Faye Webster è l’essenza del primaverismo.
VOTO: 8
Obongjayar (Marco Bisceglie)
La mia reaction alla sua presenza a questa edizione del Primavera è stata quanto più variopinta possibile: dall’euforia della lettura del suo nome nel video di presentazione, alle bestemmie nel rendermi conto che avrebbe suonato nel giorno monopolizzato da Lana del Rey (e sperare che non suonasse al Main Stage, soprattutto), al sollievo nel vedere che avrebbe suonato al Plenitude, alle bestemmie nello scoprire che clashasse con i Disclosure, all’esultanza nello scoprire che qualche giorno dopo il suo set sarebbe collimato proprio con Lana del Rey rimanendo lontano anni luce da Mordor.
Non so esattamente cosa mi piaccia di lui, ancora ora non saprei definirlo con certezza. La sua proposta musicale? Il suo accento nigeriano? Il fatto che in ogni gioco di calcio recente lui sia presente nella soundtrack? Ad ogni modo, grazie a Lana riesco ad ottenere una preziosa prima fila arrivando neanche dieci minuti prima. Achievement del giorno, o quasi.
Inizia il concerto e sembra che per il Principe Obongjayar tutto sia così immediato: canta, corre, improvvisa mosse, danza e cosa più importante riesce a coinvolgere tutti e soprattutto me che inizio a muovermi come se fossi stato trasportato in un’altra dimensione.
Il Principe lo nota, mi si avvicina, mi guarda, mi sorride, mi saluta e procede a tornare a vibare in allegria. Io, invece, impazzisco silenziosamente e internamente.
Ho adorato la cover di Point and Kill, brano di quell’altra artista spaziale di Little Simz, però la mancanza delle mie preferite Frens e Who Let Him In è un colpo basso. O forse meglio così, sennò il Plenitude lo avrei tirato giù io a furia di saltare a ‘sto giro. Mio padre.
VOTO: 7,5
Hannah Diamond (Marco Bisceglie)
Uno dei pregi di festival come il Primavera è che spesso le giornate sono un flusso di musica continuo.
Esattamente come in questo caso in cui neanche una decina di muniti dopo che Obongjayar ha finito il suo concerto, subito la folla presente si riversa sullo stage esattamente opposto, lo Steve Albini.
Visto che io voglio essere trasparente, vi dirò cosa mi aspettavo di vedere da Hannah Diamond avendo sentito qualche canzone della sua discografia: un set tranquillo, un po’ teatrale e leggero.
Quale di queste aspettative sono state rispettate? Nessuna. Nada. Zero.
Mi aspettavo un pubblico di over 40 fermi ad ammirare come si fa nei musei d’arte e mi son trovato in mezzo a una folla di 20-25enni che saltavano come malati ad ogni canzone, incoraggiati anche dalla stessa Hannah che non ha mai voluto di saperne di stare ferma.
Pensavo di sentire un silenzio generale attorno allo stage e invece dopo 3 settimane ho ancora in testa il ritornello di Fade Away cantato (o urlato, fate voi) da tutti.
Ma, cosa più importante: pensavo di trovarmi il classico pubblico misto e variegato del Primavera. Anche lì mi sbagliavo.
Questo è il mio terzo anno di Primavera e non ho dubbi a dire che quello di Hannah Diamond, ex aequo con Troye Sivan, è il concerto più gay che abbia mai visto. Ero costantemente coinvolto in balli, danze, ho cantato all’unisono il ritornello di Affirmations senza contenere la mia voce assieme a chi mi stava accanto, e dulcis in fundo ero circondato da ragazzi e ragazze che si facevano spazio tra la folla con bananoni di gomma.
Io non avevo e non ho più parole per esprimere quello che ho visto. La discrepanza tra aspettativa e realtà è stata inimmaginabile, mi sento come Sandro Piccinini quando si trovò a commentare il gol di Florenzi contro il Barcellona in Champions. COSA ABBIAMO VISTO ALLO STEVE ALBINI?!
VOTO: 8
Il pagellone continua in un secondo articolo che trovate a questo link.