C2C 2023: Racconto dal mondo

Quest’anno il C2C era tappezzato in qualsiasi pannello illuminato del motto IL MONDO, scritto in qualsiasi lingua possiate immaginare. Penso sia un ottimo punto di partenza per raccontarvelo, perché effettivamente la mia prima esperienza al festival torinese è stata una grande finestra verso un mondo che l’Italia fa ancora troppa fatica a inglobare e fare suo.

Ma tenete a mente una cosa: C2C non è solo musica. Nella sua installazione ai padiglioni del Lingotto si è messa in scena una vera e propria mostra di arte contemporanea, con spettacoli suggestivi di luci e dei palchi che non hanno niente a che vedere con qualsiasi cosa sia presente nel nostro paese. Vi basti pensare che a collegare i due palchi posti in fiera è stato dedicato un intero padiglione pressoché vuoto e buio, se non per un paio di palle da discoteca e sporadici fasci di luce che le colpivano per creare un effetto scenografico fuori dal comune, a maggior ragione se percorso in solitaria.

 
 
 
 
 
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Non è solo musica, ma di musica ce n’è stata. Premetto che ho avuto modo di vedere due serate delle tre principali che erano a disposizione, saltando quella di mezzo con lo show principale di Caroline Polachek e quelli di Marina Herlop, Evian Christ e Overmono; quindi, per ovvie ragioni non potrò parlare di quanto successo lo scorso venerdì.

La prima serata si è tenuta alle OGR e, entrando all’orario di apertura, è stato sorprendentemente facile raggiungere le transenne e custodire gelosamente il mio posto per tutte le performance che sarebbero succedute. Già lì ad aspettarci sul palco c’era un set di Reptilian Expo, quota italiana interessante che ha nei suoni glitchati la sua cifra stilistica. Subito dopo è stato il turno di Rachika Nayar, che con un ambient quasi terapeutico talvolta “sporcato” da passaggi più intensi ha catturato l’attenzione di un pubblico che probabilmente la conosceva poco, ma che ora la avrà sicuramente nel proprio radar.

È poi arrivato il momento dei nomi di cartello della giornata: prima con i Model/Actriz, band che oserei definire dance punk con forti inflessioni elettroniche. Parlai già di loro nell’introduzione al festival che potete trovare qui. Quello che non potevo immaginare era la totale pazzia che questi ragazzi di Brooklyn riescono a portare sopra (e sotto, col cantante finito in mezzo al pubblico) il palco. Il frontman Cole Haden si è presentato con una bottiglia di vino rosso, un bicchiere di plastica da sagra e un rossetto che si sarà messo almeno tre volte nel corso dello show. Tra urla sguaiate, pose da fascia protetta e una self-confidence raramente vista su un palco, chiunque quella sera alle OGR è rimasto impressionato dalla loro prima apparizione italiana. Loro stessi ci hanno promesso che torneranno presto, e noi non vediamo l’ora.

La curiosità era però tutta su una Caroline Polachek che di lì a poco si sarebbe esibita per quello che era probabilmente il suo primo assaggio di dj set con un pubblico così grande. Perché siamo abituati a sentirla cantare quei due album meravigliosi che sono Pang e Desire, I Want To Turn Into You, ma nessuno conosceva le sue capacità in console. Spoiler: non è stato uno show tecnicamente perfetto, anzi era facile vederla in difficoltà nei cambi tra un pezzo e l’altro. Quello che però renderà indimenticabile quell’ora e mezza è stata la contagiosa energia positiva che emanava ad ogni suo movimento, che fosse un ballo – come sempre – aggraziato o un movimento istintivo dettato dall’entusiasmo che il pubblico le restituiva. E la musica che passava in cassa era appetibile per ogni gusto, letteralmente: dai remix delle sue Welcome To My Island e Bunny Is A Rider, a dei passaggi di pura pc music con SOPHIE, passando poi alla DnB di Mura Masa e Hudson Mohawke, fino ad un bellissimo omaggio ai Massive Attack con Teardrop e addirittura le italianissime Ti Sento dei Matia Bazar (a lei molto cari) e PAZZESKA di MYSS KETA e Guè. Pazzia.

Il terzo giorno invece è stato teatro di uno degli spettacoli più indimenticabili che abbia mai visto, non tanto per la sua bellezza o per una perfetta esecuzione sonora. No, perché Slauson Malone 1 (da pronunciare “uno”, a quanto pare) – progetto di Jasper Marsalis – è andato oltre tutto questo: reduce da un album sì sperimentale, ma prevalentemente elettronico come EXCELSIOR, decide di rompere qualsiasi schema presentandosi con una chitarra acustica e con Nicky Wetherell, un violoncellista che a primo impatto sembrava non avere assolutamente niente a che fare l’ambiente del festival. E così partono: zero visual dietro di loro se non per gli schermi illuminati soltanto di bianco, 10 minuti buoni di strumentale quasi da considerare unplugged poi improvvisamente rotti da suoni che ricordavano finalmente lo Slauson Malone 1 sentito in cuffia.

Da lì in poi solo panico: da Marsalis che scende col microfono fino alle transenne del pubblico per chiedere a chiunque trovasse (guardie comprese) “What time is it?”, a una accennatissima Around The World (sì, quella) comparsa al massimo per un paio di secondi fino al violoncello tenuto sopra la testa di Wetherell e fatto pendolare come se fosse un orologio a muro. Dopo la fine quello che mi è rimasto è stato uno stato di estasi equilibrato alla più grande confusione che abbia mai avuto in testa.

Con questa confusione avevo bisogno di staccare un po’ il cervello con il potere magico della cassa dritta pronta a demolire il mio apparato uditivo: a compiere questo ingrato compito sono stati i Sangre Nueva, un trio composto dai dj Florentino, Kelman Duran e DJ Python. Forse le 21 erano un orario un po’ troppo anticipato per rendere indimenticabile e perfetto questo set, ma è stato comunque un bel momento da passare al secondo palco. Ed è proprio con questo palco di Stone Island che vorrei muovere una critica, perché nonostante fosse una mossa voluta dagli organizzatori, il fatto di nascondere letteralmente i dj dietro a delle casse posizionate come ad ottagono in un palco al centro del padiglione non ha aiutato a rendere così invitante una lunga permanenza al suo interno.

Un’altra critica va mossa anche all’artista che ho deciso di vedere dopo, tornando al main stage: non era la prima volta che vedevo Yves Tumor dopo un live che ho trovato davvero svogliato al Primavera Sound quest’estate, nonostante l’artista ascoltato in studio mi piaccia e non poco; quindi, ammetto di essere andato al concerto con qualche remora. Ammetto anche di non avere visto lo show dalla migliore posizione possibile e questo ha sicuramente limitato la mia esperienza sul lato della qualità audio, ma ho avuto per tutto il tempo una persistente sensazione che qualcosa non andasse a modo.

Sicuramente non è colpa della band, che anzi ha fornito una performance di alto spessore. Penso abbia a che fare con un eccessivo caos presente sopra il palco, quel caos diverso da quanto appena visto da Slauson Malone 1 che, per quanto destabilizzante, dava l’impressione di essere ben controllato. Qui parlo di vero caos, indecisione su cosa fare e forse estrema improvvisazione. E tenete a mente che questo è un aspetto puramente soggettivo, perché ho parlato con persone che lo hanno apprezzato esattamente per questo, ma quello che vedo è semplicemente un grande potenziale da animale da palco un po’ macchiato da questa scelta stilistica.

Finisce il concerto e sono già pronto a sentire King Krule, un artista per cui avevo un hype non da poco. Ed ecco che sale sul palco Archy Marshall, con il suo inconfondibile stile da rosso inglesotto trasandato figlio della classe media, pronto a rapire l’attenzione di tutti insieme alla sua fantastica band a suon di pezzoni su pezzoni, attraversando tutti e quattro gli album distribuiti in egual misura all’interno della setlist. Si parte con la malinconia quasi ottimista di Alone, Omen 3, per poi spaziare con Dum Surfer da The Ooz scoprendo la follia del sassofonista sul palco in preda a convulsioni e frasi sconclusionate urlate in spagnolo, qualsiasi fosse la ragione. E poi ancora la fresca d’uscita Seaforth accompagnata da un’onda composta dalle mani alzate del pubblico, una Easy Easy da cantare a squarciagola e la pelle d’oca data dalla magnifica ballad Baby Blue, con queste ultime due che testimoniano la versatilità di uno dei migliori artisti di questa generazione.

Ormai si erano quasi fatte le 2 del mattino, la stanchezza iniziava a farsi sentire, ma ad aiutarci ad alleviare quella sensazione c’era un mastodontico set di un’ora e mezza di Flying Lotus, ormai definibile una figura leggendaria della scena hip hop un po’ più underground grazie anche alla ricezione più che positiva del suo album di punta Cosmogramma. E lo dimostrano i featuring nei pezzi portati sul palco a mo’ di dj set, gran parte di questi erano collaborazioni: Kendrick Lamar (realizzando il mio sogno di sentire Wesley’s Theory dal vivo), Denzel Curry, Thundercat, persino un bell’omaggio a Mac Miller. Ma non solo, perché Flying Lotus è anche diventato per qualche attimo Captain Murphy, il suo alter ego meno producer e più rapper che è sceso dalla console e ha regalato al pubblico qualche barra.

In conclusione, questa ventunesima edizione di C2C ha rispettato le attese, portando pubblico e artisti da ogni parte del mondo, ricordandoci che l’Italia non è solo tradizione e rigidità al cambiamento, ma che da eventi come questo sta nascendo un sentimento di rivoluzione del concetto di “musica dal vivo”, abbracciando una formula di stampo internazionale capace di rendere anche il nostro paese una meta considerata da artisti di questa nicchia. La strada è lunga, ma la retta via la potete trovare qua.

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