Luca Basso

Quell’intervista a Gazzelle quando era ancora nessuno

Me lo ricordo come se fosse ieri il biennio 2016-2017. All’epoca scoppiò la bolla della “scena indie” italiana – quella che venne poi chiamata a posteriori “ITPOP” – guidato dal successo nazionale di Mainstream, secondo album di Calcutta uscito a fine 2015, e con l’uscita di dischi tra i quali Aurora (I Cani), L’ultima festa (Cosmo), Completamente Sold Out (Thegiornalisti), La fine dei vent’anni (Motta) e Avete ragione tutti (Canova). Proprio i Canova, al loro esordio discografico, erano sotto l’etichetta Maciste Dischi. Nata nel 2014 a Milano, in breve tempo è diventata una delle piccole punte di diamante di questa nuova ondata musicale. Non è un caso se, sempre sotto il loro nome, ha iniziato a muovere i primi passi Gazzelle, nome d’arte di Flavio Bruno Pardini. Quattro LP pubblicati, milioni di ascolti su Spotify (Destri è a quota 135.378.372 al momento di scrivere questo articolo), concerti agli stadi e una partecipazione al Festival di Sanremo 2024. Il piccolo Flavio è un artista dalla solida fama nella nostra Penisola e spesso vedo delle storie su Instagram delle mie conoscenze – parliamo di una fascia d’età tra i 25 e i 30 anni – che vanno a sentirlo dal vivo. Eppure, nessuno di loro saprebbe raccontare la sua ascesa al panorama mainstream nazionale o le sue prime esperienze musicali. Per fortuna c’è il sottoscritto a raccontarvelo perché, come avete capito dall’incipit iniziale, ho vissuto in prima persona la “scena indie” e, di conseguenza, l’arrivo di Gazzelle. Il primo singolo in assoluto, Quella Te del 9 dicembre 2016, non lo vede comparire nemmeno in video, dalla chiara ispirazione vaporwave (anche quella in voga ai tempi), e l’ufficio stampa di Maciste Dischi distribuisce solo foto sfocate, a celare la sua vera identità. Anche il successivo NMRPM mantiene ignoto il volto di Gazzelle, che viene immediatamente etichettato come una versione di Calcutta anni Ottanta. Per chi è anziano come me, si ricorderà la massiccia presenza del cantautore romano nel gruppo Facebook “Diesagiowave”, considerata praticamente la “massoneria dell’indie italiano” secondo Vice Italia. Con Zucchero filato era ormai pronta anche l’uscita dell’atteso album Superbattito e il primo tour nella penisola. Tutti volevano sapere chi fosse ‘sto Gazzelle e l’11 marzo 2017 sarebbe apparso al Vinile, storico locale di Rosà, in provincia di Vicenza, per la seconda tappa del suo lungo viaggio, che sarebbe cominciato al Monk di Roma il 3 marzo. Allora scrivevo a ruota libera per la webzine Feline Wood, tra un impegno universitario e l’altro, e dovevo assolutamente sfruttare l’occasione per intervistarlo. Contatto quindi Alessandro di Sporco Impossibile, ricevo in anteprima il presskit completo di Superbattito e fissiamo l’incontro per il pomeriggio del 3 marzo, nella fase di soundcheck con i Canova. Quando ci incontriamo, Flavio mi è apparso come un normale ragazzo qualunque, che vuole suonare la sua musica e disponibile a farsi conoscere. La mezz’ora passata in compagnia è piacevole e divertente: io, un pivello alle prime armi come “giornalista”, a parlare con lui nella sala fumatori, sprofondati nei nostri rispettivi pouf. La sera vado a sentire il suo concerto, compro il suo disco (senza autografo) e lo saluto dandogli una pacca sulla spalla, augurandogli un “in bocca al lupo” per il resto del tour. Fa ridere perché non avrei osato immaginare la sua crescita di popolarità negli anni successivi e non è un caso se, a distanza di tempo, Superbattito è l’unica cosa che ascolto del suo repertorio. Negli ultimi mesi, ripensando a quest’episodio, ho cercato di recuperare quella famosa intervista, di cui conservo ancora il file audio del telefono. Rileggendola mi è comparso un sincero sorriso di fronte alle domande ingenue poste a Flavio, alle sue risposte e a quello che oggi è diventato: un artista che, nonostante sia uscito dal mio radar e totalmente lontano dai miei gusti, ha saputo costruirsi una carriera di successo. Per l’occasione, ripropongo qui sotto l’intervista completa, ma prima: ve lo ricordate lo zucchero filato? Chi si nasconde dietro il personaggio Gazzelle? Come mai hai voluto mascherare il tuo volto? Dietro a Gazzelle si nasconde Flavio. Ho scelto di non farmi vedere troppo perché, in generale, non mi piace apparire molto e deve essere la musica l’unica cosa di cui si deve parlare. Provieni dal panorama musicale romano e ci sono tanti artisti come Thegiornalisti o Calcutta (anche se più “bolognese”) che sono noti a livello nazionale. Te come hai vissuto questo contesto? Sono contento che stia uscendo un sacco di roba da Roma; per quanto mi riguarda personalmente, non provengo da un contesto particolare, sono di Roma e basta. Quando hai pensato d’iniziare a far musica e da che gruppi o generi trai ispirazione? Da quando avevo sei anni, è sempre stata l’unica cosa che volevo fare e che poi ho sempre fatto, anche quando ero da solo nella mia cameretta, e negli ultimi anni ho formato una band perché volevo qualcosa di completo. Per quanto riguarda da chi prendo ispirazione dipende molto dal periodo, da cosa ascolto in quel momento o dai film che vedo. Permettici una domanda scomoda: molti ti paragonano a Calcutta, ma te ti accosti di più a lui o ne prendi le distanze. Nessuna delle due (e ride ndr). Edoardo lo conosco, ma non credo che sia un paragone fattibile; a me non interessa. Definisci la tua musica “sexy pop”: possiamo dire che prendi ispirazione da quella corrente definita “vaporwave”? Questo per quanto riguarda la parte estetica del progetto: oltre a scrivere e cantare una canzone, mi interesso anche della parte estetica come, ad esempio, i videoclip e non lascio nulla al caso. Molto dipende dalla regista dei video (Paula Ling Yi Sun, ndr) che viene da quel mondo, molto legata all’estetica; parlando con lei e tirando giù idee mi ha fatto scoprire questo mondo e mi è piaciuto, ma in realtà non so cosa sia questo “vaporwave”. Collegandoci con la parte grafica/visual, com’è nato il rapporto con Paula? Con Paula siamo amici da una vita perché ci siamo conosciuti ai tempi del liceo. Non avevo mai

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Ho toccato la schiena sudata di Blank Banshee

Blank Banshee è un pazzo scatenato, punto. Potrebbe terminare così il riassunto della serata vissuta lo scorso 27 novembre all’Arca di Milano, unica tappa italiana del 4D Tour dell’artista mascherato canadese. Tuttavia, per dovere di cronaca, è giusto approfondire il racconto di quella che è stata l’ora più folle ed insensata del mio 2023. Cominciamo col dire che Blank Banshee, per chi non lo sapesse, è il precursore del genere vaportrap, sottogenere che mescola gli elementi della vaporwave con la trap. Di lui si conosce nome, cognome, età, paese e città d’origine, ma nessuno lo ha mai visto in faccia. Infatti, ad ogni live, si nasconde dietro ad una maschera brillantinata, passamontagna e cappuccio. La fama è arrivata nel 2012, all’apice della popolarità della vaporwave, con la canzone simbolo Teen Pregnancy estratta dal suo album di debutto Blank Banshee 0, dopodiché il suo anonimato, Internet, i “meme” e tutto il resto ha permesso alla sua figura di farsi conoscere in tutto il mondo, Italia compresa. Infatti, Blank Banshee aveva già fatto visita all’Italia diverse volte in passato: nel 2017 (Bologna) e nel 2019 (Bologna, Milano e Roma), mentre l’unica presenza del 2021 (ai Magazzini Generali di Milano) venne annullata per le questioni sanitarie legate al COVID-19 – e, aggiungo, gran peccato visto che vivevo a pochi passi dalla venue. Insomma, questo ritorno nella nostra penisola era davvero molto atteso dai suoi fan di lunga data e dal sottoscritto, che non aveva ancora avuto piacere di vedere una sua esibizione. E l’Arca è il posto perfetto per accoglierlo perché questo spazio polifunzionale, fondato appena un anno fa, mira ad essere un punto di riferimento per la scena elettronica a Milano. Veniamo al dunque. Parcheggio la mia auto poco distante dal locale, entro dentro verso le 20:30 e, in attesa dell’inizio alle 21:30 con tanto di countdown proiettato sul muro, scambio quattro chiacchiere con un mio amico. La stanza non è enorme, le persone non sono tante, ma l’atmosfera è quella di una serata piena di adrenalina e tra veri supporters di Blank Banshee. Appena termina il tempo, la folla inizia ad acclamare la presenza di Blank Banshee e lui sbuca fuori. Sulla sua postazione non ha nulla se non un computer portatile e un launchpad: un segnale iniziale che potrebbe far pensare a un pre-set a cui basta premere avvio. Invece, già dopo i primi secondi, il nostro eroe mascherato si scatena, facendo rimbalzare le proprie dita sulla propria strumentazione. Quello che avviene dopo è difficilmente descrivibile. Si susseguono diversi pezzi del proprio repertorio, a partire da Blank Banshee 0 fino ad arrivare a 4D, l’ultimo album prodotto. L’artista nordamericano carica la folla nelle primissime fasi con sonorità forti e potenti, riuscendo successivamente ad alternare questi momenti concitati con quelli più distesi – anche se, dal vivo, anche brani cosiddetti “leggeri” risultato martellanti grazie alla resa dei bassi. Blank Banshee è abile a regalare numerosi colpi di scena al pubblico con la propria musica, ma anche i video, proiettati alle sue spalle, contribuiscono alla resa dell’atmosfera generale. Grafiche spartane ed essenziali tipiche della vaporwave, più altri elementi propri del progetto come, ad esempio, le varie copertine degli album. In un battibaleno, un’ora di concerto è volata e arriviamo al termine di esso, con Blank Banshee che si getta sul pubblico scatenato. In pochi secondi viene accerchiato e il nostro uomo passa la restante mezz’ora a prestarsi per foto e autografi. Tra le migliori scene possiamo ricordare: un tizio che tira fuori un fazzoletto di carta e una penna; un altro tipo che gli porge un libro di Pier Paolo Pasolini; il bodyguard che lo invita a tornare nel backstage, ma lui lo respinge dicendo che non ci sono problemi. Proprio quest’ultimo fatto mi ha notevolmente colpito: Blank Banshee, nonostante la maschera, ama il proprio pubblico e ringrazia tutti coloro che gli porgono un complimento. Come al sottoscritto, con un bel selfie completamente abbracciati, con la mia mano sulla sua schiena sudata e una forte stretta di mano finale. Non ci sono dubbi: Blank Banshee è l’eroe mascherato della gente comune di cui avevamo bisogno. Le prime due foto di questo articolo sono opera di Charles-Antoine Marcotte. Luca Basso

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Ci vuole più gente di mare come Daði Freyr

Il 18 settembre 2023, al Fabrique di Milano, è in programma l’attesissimo concerto di James Blake per l’unica tappa italiana del suo nuovo tour. Se fate una rapida ricerca su Google e affini troverete numerosi articoli in merito, dove si possono leggere parole di elogio e magnificenza verso l’artista britannico. Anche io avrei tanto voluto esserci: sebbene non abbia mai assistito ad un suo live, il rincaro dei prezzi dei biglietti che stiamo subendo qui in Italia mi ha fatto desistere. Però non è l’unico motivo perché la stessa sera, al Santeria Toscana 31, si esibiva Daði Freyr. In confronto, su di lui non c’è proprio nulla in Internet per quanto riguarda la sua scappatella a Milano – anzi, molto probabilmente questo articolo è il primo link che avete trovato. Eppure è strano perché con la sua Think About Things – presentata per l’Eurovision Song Contest 2020 – è stata una delle canzoni più ascoltate (e apprezzate) qui in Italia e nel resto dell’Europa. Effettivamente – senza nulla togliere al bellissimo Santeria – la location scelta è piuttosto piccola rispetto alle altre date del suo tour. Nonostante il giorno infame – mi chiedo perché di lunedì bisogna organizzare un concerto – mi presento al locale alle 20:30, giusto in tempo per vedere la mezz’ora di esibizione di Toucan. Non avevo sentito nulla del repertorio del cantautore irlandese, ma grazie solo alla propria voce e alla propria chitarra (più una seconda suonata da un accompagnatore) è riuscito a rasserenare l’ambiente, coinvolgendo allo stesso tempo il pubblico facendolo cantare in alcuni spezzoni. Non passa inosservato, invece, la grande faccia gonfiabile di Daði posta dietro al piccolo palco, oltre alla serie di luci a neon attorno ad essa. L’intuito mi suggerisce che sarà tutto molto colorato ed esplosivo, proprio come la sua musica dance-pop. Finalmente, con una timida e pacata entrata in scena, Daði prende posto sul palco, insieme ad altri due musicisti, e saluta il pubblico italiano. Partenza in crescendo con Thank You per acclimatare i presenti e, al termine del primo brano, il “grattacielo” islandese inizia a scherzare con tutti. Sarà uno dei punti cardine della serata e ve lo spiego con alcuni episodi in ordine sparso: Saluta calorosamente una bambina in prima fila, sulle spalle del proprio padre; Prende in mano lo smartphone di una persona e inizia a farsi un video; Tenta di mettere mano sulla strumentazione della propria fonica, a lato del palco; Sfodera alcune pose scherzose e provocanti; Dice di aver bevuto un cappuccino dopo le 11:00 in una caffetteria; Ruba un secondo telefono e tenta di infilarselo nei pantaloni; Regala battute e perle di saggezza tra una pausa e l’altra. Insomma, quello che mi trovo davanti è un Daði Freyr pronto a scatenarsi e a divertirsi genuinamente con noi spettatori. E la scaletta prosegue con un ritmo scattante con canzoni quali Where We Wanna Be, Sometimes, Moves to Make, 10 Years e I’m Fine, senza dimenticare Skiptir ekki máli (unica canzone in islandese che io ricordi del concerto). Con una velocità impressionante arriviamo proprio a Think About Things a chiudere il tutto. Ma la sorpresa arriva con il “bis” perché, senza conoscere una parola d’italiano, inizia a cantare Gente di Mare di Umberto Tozzi e Raf, chiaramente con un foglio davanti a sé con il testo stampato. Dove lui sbaglia chiaramente parole, il pubblico risponde incoraggiandolo e cantando: il suo sforzo di farsi amico i milanesi è più che apprezzato e, anzi, è un chiaro segnale delle dell’amore verso la musica di Daði. Senza nulla togliere a James Blake, sono stato ben felice di essermi goduto Daði Freyr dal vivo. Ci vuole più “gente di mare” come lui nel mondo per rallegrare le nostre vite. Le bellissime foto sono di Ilaria Maiorino, le potete trovare qui. Luca Basso

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Yukika: la city pop giapponese rinasce in Corea del Sud

In questi ultimi anni sono entrato in fissa con molti generi musicali che hanno trovato popolarità su Internet: come ad esempio la vaporware oppure la future funk, che prendono spunto per la loro estetica e per il loro sound dal Giappone. Proprio l’ultimo genere che ho citato riprende fortemente le canzoni city pop, diffusissime proprio nel Sol Levante negli anni Ottanta che davano risalto alla felicità, al periodo estivo passato in riva al mare e al boom economico di una Tokyo ormai diventata un vero e proprio centro finanziario mondiale. È curioso che la city pop riprendesse la musica occidentale, modello per i giapponesi su tutti i fronti, con elementi jazz fusion, funk e soft rock, così come è vertiginosamente precipitata nel dimenticatoio nel giro di un decennio a causa proprio dello scoppio della bolla speculativa che si era formata in quegli anni. Se si vola in Giappone e si chiede ai giapponesi se sanno cos’è la city pop, loro risponderanno con esito negativo. Eppure la city pop è ritornata prepotentemente alla ribalta grazie anche a canzoni come “Plastic Love” di Mariya Takeuchi oppure “Ride on Time” di Tatsuro Yamashita – che, tra l’altro, è suo marito. Chi ci ha visto lungo – come sempre – è la Corea del Sud, il vicino nemico-amico del Giappone che sa come conquistare il popolo occidentale con il K-pop con le sue boy band/girl band al seguito. Tra le prime ad arrivarci è stata Yubin che, nell’estate del 2018, ha regalato una perla come “숙녀 (淑女) Lady” – ok, non so leggere il coreano o il giapponese – che strizza l’occhio alla city pop: sound anni ’80, ritmo calzante e un video che spruzza da tutti i pori la nostalgia di una decade scintillante e, ai tempi, moderna. Un fuoco di paglia comunque perché la cantante coreana è ritornata sui passi della K-pop moderna. C’è da sottolineare che Yubin già conosceva il genere avendo rilasciato “I Feel You” con il suo ex gruppo Wonder Girls nel 2015. Yukika: la city pop è un affare giapponese Chi ci ha davvero buttato anima e corpo è Yukika Teramoto, conosciuta solo come Yukika. Nata in Giappone, la sua è una storia particolare: già a 13 anni appare nella celebre rivista pre-adolescenziale Nicola, diventando quindi modella, attrice per alcune serie televisive per giovani e doppiatrice per diversi anime – i cartoni giapponesi per chi non conoscesse il termine; insomma, una vera e propria emulazione di tutte le cantanti americane che hanno esordito con Disney Channel. Nel 2009 arriva però il colpo di scena: una pausa per dedicarsi anima e corpo all’università. Salto veloce di qualche anno: nel 2015, Yukika lascia il Giappone e si trasferisce in Corea del Sud – cosa molto atipica per essere una giapponese che avrebbe già la possibilità di avere un suo percorso in madre patria. Non è una scelta comunque casuale: i coreani si stanno appropriando della city pop giapponese e ci vuole qualcuno a difendere i suoi colori. L’avventura parte con la partecipazione a The Idolmaster KR, un drama che racconta la storia di dieci ragazze che si preparano a diventare appunto delle idol, e al reality show Mix Nine. Proprio dalla prima esperienza si unirà a un gruppo chiamato Real Girls Project, scioltosi come neve al sole dopo due anni. Luci a neon e fusione coreana È arrivato quindi il momento del salto di qualità: a febbraio 2019 esce il primo singolo “Neon (네온)” per la piccola etichetta ESTIMATE Enterainment, che ha in ingaggio solamente lei e – da quanto ho capito – un altro cantante. Il singolo raccoglie molte critiche positive fuori dalla Corea del Sud ma, dall’interno, pare sia arrivato invece qualche sorriso e incoraggiamento, con Yukika capace di sorprendere un po’ tutti per una solida pronuncia coreana essendo la canzone scritta proprio in quella lingua. Nel tempo sono poi arrivati altri singoli e, finalmente, il primo album. “Soul Lady (서울여자)” contiene undici tracce che raccolgono la city pop e la infondono nella K-pop. Un lavoro che sorprende sicuramente noi che viviamo in Occidente ma anche i coreani stessi: al momento è riuscito a raggiungere l’ottava posizione in classica e il singolone omonimo sembra aver preso bene i coreani. Un esperimento che ha avuto successo? Solo in parte, anche perché a novembre 2020 le strade tra la ESTIMATE Enterainment e Yukika si sono separate, con la cantante giapponese diretta verso la Ubuntu Entertainment, di proprietà del suo ex manager. Ed ecco quindi l’uscita frettolosa di un EP, “timeabout,” per sancire la nuova avventura, sebbene la city pop è pesantemente infarinata con elementi zuccherini e sbriluccicosi della più banale dance pop coreana. Yukika continua comunque per la propria strada, collaborando con un artista sulla sua stessa linea d’onda quale Bronze (브론즈) e continuando a sfornare singoli conosciuti, però, solo al di fuori della penisola asiatica. Una cosa è certa: Yukika è decisa a tracciare una linea che collega la Corea del Sud con il Giappone. Articolo scritto originariamente per Feline Wood, 2 ottobre 2020 Foto: Ubuntu Entertainment Luca Basso

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Quella volta che (non) ho visto gli Arctic Monkeys a Milano

Ben 65.000 persone erano presenti al concerto degli Arctic Monkeys a Milano, più precisamente all’Ippodromo SNAI La Maura nel contesto degli I-Days Coca-Cola 2023. Sì, avete letto bene: sessantacinquemila. Io ho fatto parte di quel numero, ma giusto per due motivi: Un mio amico aveva un biglietto in più e mi dispiaceva non sfruttare l’occasione per rivedersi dopo tanto tempo; Tra i gruppi di apertura c’erano anche gli Hives, forti e carismatici, conosciuti solo grazie alle ore passate a giocare al videogioco Gran Turismo 4 per PlayStation 2. Era dal 2018 che la band britannica non veniva a suonare in Italia e, nonostante siano tra i miei ascolti abituali durante l’anno, non ho avuto l’impulso e il desiderio di comprare il biglietto. Perché il rischio era quello di sentire i grandi successi piuttosto che The Car, il loro ultimo album in studio. E, soprattutto, per la mole di fan e non a popolare un grande spicchio di prato in una calda estate milanese. Insomma, il gioco non valeva candela e, alla fine, è stato davvero così? Sì e no, ma proprio per rispondere a questa domanda più approfonditamente devo dividere in due questo articolo: la performance in sé degli Arctic Monkeys da una parte, il contesto e tutti gli argomenti relativi dall’altro. Una sorta di gelato Maxibon, amato per la parte croccante di cioccolato e snobbato per il restante biscotto. Ma quanto spaccano gli Hives? Prima di tutto, partiamo con un plauso agli Hives, probabilmente sconosciuti da praticamente tutta la folla che, per compensare, li ha snobbati. Non sono una band svedese qualunque: sono attivi fin dagli anni Novanta, hanno infiammato la scena garage rock fino agli anni Duemila e sono sempre rimasti sulla cresta dell’onda. Non capita tutti i giorni avere la possibilità di assistere alla loro grande carica sul palco, quando vestono smoking decorati con le saette bianche sotto il sole cocente, e lo straordinario coinvolgimento da parte di Howlin’ Pelle Almqvist, il frontman e cantante degli Hives. Non credo di mai essermi divertito così tanto. Walk Idiot Walk, Tick Tick Boom e Hate to Say I Told You, più gli ultimi singoli e diversi estratti da Lex Hives: uno spettacolo sublime, capace di trasmettere scariche di energia travolgenti, nonostante il caldo soffocante e l’ignoranza dei presenti. Evviva la solita minestra Alle 21:40, puntualissimi, prendono in mano la scena i protagonisti della serata: gli Arctic Monkeys. Partenza a tutta velocità con Brianstorm a scatenare subito la folla, seguita da Snap Out Of It, Don’t Sit Down ‘Cause I’ve Moved Your Chair e Crying Lightning. Loro sono in grande forma, lasciano parlare la musica – come giusto che sia – piuttosto di spezzare il ritmo con qualche discorso rivolto al pubblico e si divertono. Tuttavia, l’impressione è quella che nel corso del concerto ci sarà poco spazio per i lavori recenti e che la scaletta sarà una sorta di best of, giusto per accontentare i fan. E in parte ci vedo giusto. Infatti, AM non può mancare e compaiono le varie Why’d You Only Call Me When You’re High?, Arabella e Do I Wanna Know?, così come Fluorescent Adolescent e 505 (da Favourite Worst Nightmare). Da Tranquility Base Hotel & Casino sbuca fuori solo Four Out Of Five (tra l’altro poco convincente dal vivo), mentre da The Car compare I Ain’t Quite Where I Think I Am solamente a metà esibizione, come per dire: «Ehi, c’è anche l’album nuovo!». Tra l’altro, il momento migliore è verso la fine, quando si accende la grossa palla da discoteca per There’d Better Be A Mirrorball. Indimenticabile il cosiddetto bis, che parte con Sculptures of Anything Goes e prosegue a mille con I Bet You Look Good on the Dancefloor e l’intramontabile R U Mine?, che sembra terminare il concerto e, invece, riparte un nuovo giro di ritornello. Ah, davvero è uscito un nuovo album? Nel complesso, gli Arctic Monkeys dimostrano di essere dei mostri da palco, perfetti nell’esecuzione e senza troppi fronzoli, come ci si aspetta da un concerto di puro rock. Però, Alex Turner è il vero mattatore, lasciando in un antro Jamie Cook, Matt Helders e Nick O’Malley: ci sta, la sua presenza scenica è teatrale e carismatica, tanto da far bagnare le ragazze presenti che, ad un certo punto, urlano all’unisono il suo nome. Rimane, invece, la sensazione della trasformazione degli Arctic Monkeys – nel contesto dei live – a pura band da reunion, rivolta a trentenni nostalgici e ai giovanissimi che non hanno mai vissuto la loro epoca d’oro. The Car non trova un vero spazio nel megaconcerto e chi, come me, sperava in una netta predominanza dell’ultimo LP rimane deluso: forse meglio così, perché un ambiente più piccolo e intimo è molto più adatto all’ascolto del nuovo percorso intrapreso dal gruppo. Il trionfo dell’era digitale Tocca ora parlare di tutto il resto, a cominciare dal comparto acustico. Non riuscivo a distinguere perfettamente la voce di Alex Turner, troppo bassa rispetto al volume generale della musica. Da un festival di grosse dimensioni non ci si aspetta questa superficialità a livello tecnico, aggiungendo che anche la linea di basso era notevolmente sovrastata dalla batteria e, di conseguenza, non è stato possibile godersi pienamente tutte le canzoni. Non credo che questo dipendesse dalla mia posizione nel megaprato dell’ippodromo perché mi trovavo letteralmente nel fondo, dietro alla seconda linea di impianto audio. Parliamo proprio di quest’ultimo punto: non sono mai riuscito a vedere il palco e sono stato costretto ad accontentarmi dei due schermi laterali per capire cosa stesse succedendo. L’unica soluzione era quella di prendere in mano il portafoglio e lasciare giù più soldi per accapparsi il pit da oltre 75 euro, invece dei 60 richiesti per le file dietro, ma sempre con il rischio di non vedere nulla se non si arrivava per primi sottopalco. Proprio per evitare queste situazioni snobbo questo tipo di super concerti, ma la colpa della visuale è (in questo caso) anche dei tantissimi smartphone all’aria, fissi a riprendere il tutto. Posso capire il

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Ghemon, un microfono e un castello: è solo “Una Cosetta Così”

Non credo di far parte della categoria degli “ossessionati” di Ghemon, o meglio: ho quattro vinili, è l’artista italiano ai vertici delle mie classifiche di ascolto su Spotify e, di certo, anche in quelle internazionali, ma non sono uno che lo idolatra in tutto e per tutto. Il primo approccio alla sua musica fu a fine 2017, quando mi innamorai perdutamente di Mezzanotte in un periodo della mia vita in cui, da “ignorante musicale”, stavo esplorando il panorama del nostro Paese. Il conseguente primo concerto che ebbi modo di assistere è stato nel lontano 23 luglio 2018 al Lumen Festival di Vicenza, nel contesto del suo Criminale Emozionale Tour – ma che bomba di canzone è? – e con appresso Le Forze del Bene, la sua band capace di rendere ancora più meravigliose le sue canzoni. In stampelle, con una frattura scomposta a tibia e perone della gamba destra (per un infortunio subito durante in una partita di calcio), mi godetti parte del live perché i miei amici, non così troppo interessati, preferirono girovagare per il Giardino Salvi. Da allora, non ho mai avuto occasione di partecipare ad un altro concerto. Perché a Vicenza – dove sono nato – non è più venuto, perché la tappa di Treviso del 2020 è stata cancellata per la pandemia di COVID-19 e le restanti di Milano – dove mi sono trasferito – coincidevano con le mie trasferte di lavoro. Finché non è arrivata Una Cosetta Così: «Non è un concerto, non è un monologo teatrale e neanche uno spettacolo comico, ma in parte, un po’ di tutto questo». Non ci ho pensato due volte e ho comprato subito i biglietti per la data del 5 aprile a Milano, al Santeria Toscana 31 situato poco distante dal mio precedente appartamento. Peccato che il giorno precedente mi ritrovo la febbre a 39°C e devo dare forfait. «Che rabbia!» pensai, e forse Gianluca ha pensato a me inserendo un nuovo spettacolo il 26 giugno al Castello Sforzesco. Tutto questo preambolo serve a far capire quante aspettative nutrivo per Una Cosetta Così, e direi che sono state ampiamente rispettate in positivo. Poco prima di salire sul palco, Gianluca lancia un messaggio audio in cui invita a usare il meno possibile i nostri smartphone, ovviamente non mancando di fare qualche battuta e strappare qualche sorriso al pubblico. Questo per non svelare tutto lo spettacolo a chi, invece, non ha ancora avuto la fortuna di viverlo – e, infatti, se fate una ricerca nel web non troverete nessuna recensione che ne approfondisce le tematiche. Quindi, di conseguenza, anche chi scrive queste righe non dirà altro nello specifico. Quello che posso dirvi è che al centro della storia è Giovanni Luca Picariello (così all’anagrafe), il rapporto con la sua famiglia, la passione per il rap, la depressione e la sanità mentale, la vita casalinga, Sanremo, la fidanzata e le maratone. Gianluca è uno storyteller perfetto, un flusso continuo di parole e racconti in grado di catturarci in ogni momento. Tuttavia, la sensazione durante le (quasi) due ore è di un progetto ancora in fase embrionale: alcuni passaggi sono troppo ripidi e scollegati, alcuni momenti risultato sottotono rispetto agli altri, così come non sono immediate le canzoni scelte e cantate come intermezzo. Ecco, forse qui risiede la mia delusione perché non è stato pescato nulla dal repertorio di Ghemon, ma le esecuzioni in sé sono state da brividi, soprattutto una “rappata” vecchia maniera. Possiamo, però, apprezzare l’evoluzione del Ghemon rapper al Ghemon cantante, il duro lavoro dietro a questa crescita musicale. Ricordiamo che lo spettacolo è stato scritto da Gianluca insieme a Carmine del Grosso, comico già visto su Comedy Central Italia e in Battute?. Sarà Una Cosetta Così, ma in realtà è stata una sfida estremamente coraggiosa e affrontata con grande spontaneità e spessore. Storia bonus: chiusi i microfoni definitivamente, mi dirigo sul palco per chiedere ai tecnici se c’è la possibilità di un autografo al vinile di Mezzanotte, che tengo in quel momento nella mia sacca. Mi rimandano all’entrata laterale del backstage, dove pongo al tastierista la stessa domanda: ricevo un clamoroso no, ovvero che dovrò aspettare un bel po’ per averlo. Nel frattempo, gli addetti alla sicurezza cacciano dalla zona coloro che non hanno un braccialetto che, scoprirò solo dopo, serve per accedere al “dietro le quinte”. Deluso e ferito, torno a casa senza nulla di desirato in mano, anche se l’unica nota positiva è aver riconosciuto Kiave (Mirko, non ti ho chiesto la foto perché mi sembrava una forma di consolazione). Probabilmente era Scritto nelle Stelle… Luca Basso

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Il fiasco dei NxWorries (Anderson .Paak e Knxwledge) al Fabrique di Milano

Andiamo dritti al punto: quello dei NxWorries – il superduo formato da Anderson .Paak e dal produttore Knxwledge – al Fabrique di Milano è stato il concerto più brutto a cui abbia mai assistito negli ultimi dieci anni. Non scherzo mica, credetemi. Nella mia vita ho visto tonnellate di esibizioni: dalla più becera delle cover band degli 883 agli artisti più apprezzati del globo. Un curriculum che farebbe rabbrividire perfino quel sapientone di Red Ronnie. Tutto esaurito e alte aspettative Prima di partire, riavvolgiamo il nastro a gennaio. Il nuovo anno è perfetto per fissare nuovi obiettivi e, personalmente, ho deciso di vedere finalmente dal vivo Anderson .Paak in qualsiasi tipo di forma. Ed eccola lì la possibilità: 25 maggio a Milano con il compagno di merende Knxwledge, tra l’altro come prima tappa del tour europeo del loro fichissimo progetto NxWorries. Lancio l’invito ad una mia amica e prendiamo i biglietti senza pensarci. Sgancio 83,44 euro a quei falliti di TicketOne – si scherza! Ma sempre siano maledette le vostre commissioni –, segno sul calendario l’evento da non perdere ed è praticamente fatta. Due giorni prima, però, ricevo un pacco clamoroso dalla mia accompagnatrice, sicché mi trasformo in un lupo solitario. Giovedì termino di lavorare e scatto da casa alle 19.15, tempo di parcheggiare l’auto alle 20:00 proprio per l’inizio previsto del DJ set di Knxwledge. Vedo una fila chilometrica all’entrata e mi rendo conto solo in quel momento dell’effettivo sold out. Niente paura, in pochi minuti sono dentro: sebbene non ho cenato, sono bello carico perché trovo spazio a pochi passi dal palco. Ritardi, attese e bestemmie Ma eccola l’inchiappettata. Rimaniamo in piedi, con lo sguardo perso sul vuoto, fino a quando Knxwledge compare svogliato alla consolle, posizionata in un soppalco rivestito da tre grandi schermi a LED, alle ore 21:00. L’inizio è abbastanza scialbo, tant’è che nessuno nei miei paraggi accenna un minimo movimento.La scossa arriva con Daydreamin, singolo uscito una settimana fa e il cui videoclip di GTA V appare negli schermi, ma di Anderson .Paak nessuna traccia. Il burlone esce allo scoperto al fianco di Knxwledge, tra l’altro con un vistoso copricapo peloso, e svela di aver cantato nascosto dal pubblico. Qui inizia, dico, il vero concerto, ma capisco poco dopo di essere arrivato troppo frettolosamente a questo presupposto. Infatti, Anderson .Paak esegue un paio di canzoni dall’album d’esordio del duo, Yes Lawd!, e ritorna nel dietro le quinte, per lasciare solo soletto Knxwledge ai “piatti”. Una mossa che ammoscia l’atmosfera dopo la breve e grintosa presenza del suo teammate, tant’è che la folla ritorna composta. Così funziona: Anderson .Paak entra, canta qualche canzone, abbandona il palco, Knxwledge mette qualche pezzo e così in loop. Via i microfoni Dopo appena un’ora, i due salutano il pubblico di Milano e si ritirano nelle loro stanze e letteralmente tutti rimaniamo confusi. Le luci, a mano a mano, si accendono, i tecnici procedono a rimuovere addirittura l’asta del microfono, ma la gente non si sposta: iniziano le prime urla e, da qualcuno, anche qualche fischio. Io, invece, sono alla ricerca dei testicoli che sono caduti da qualche parte… Il clima, per non dire pesante, è parecchio teso. Knxwledge se ne accorge e riappare alla consolle, ma solamente per rovinare ancor di più la serata con Wonderwall degli Oasis – già brutta di suo – su un’orrenda base hip hop. Anderson .Paak prova a metterci la pezza con un’ultima canzone, ma nemmeno i suoi pettorali sudati e il suo sorriso risolleva la situazione. “We love Milano”, ciao e arrivederci, con tanto di pedata sul sedere. Un ibrido che non convince Tralasciando il tentativo di presentarmi come un simpaticone con il racconto qui sopra, perché questo concerto è totalmente da buttare nel cestino? Innanzitutto, l’ibrido tra DJ set e live non ha convinto fin dall’inizio. Di certo ero uno dei pochi che sapeva di andare ad assistere a un concerto hip hop nel vero senso del termine, quando invece la maggioranza del pubblico era lì solo per Anderson .Paak, con annesse aspettative da live band e musica retrò. Tuttavia, le scelte proposte da Knxwledge non hanno funzionato: i passaggi tra un brano e l’altro sono risultati imprecisi e confusionari, poco in sintonia rispetto alle potenti entrate in scena di Anderson .Paak. Per fare un veloce paragone, sembrava di stare sulle montagne russe: Anderson .Paak regalava una forte scarica di adrenalina sul palco, mentre Knxwledge da solo in consolle abbassava notevolmente i toni con il suo repertorio personale. Avrei accettato e capito le due cose separate come da copione – nella mail di D’Alessandro e Galli era ben specificato DJ set di Knxwledge alle 20:00 e concerto alle 21.00 – o la stessa linea d’onda (di ritmo, di sound, di proposte) tra DJ set e live, ma è stato un completo fiasco. “È un duro lavoro, ma qualcuno deve pur farlo” Infine, la durata è stata imbarazzante rispetto alla quantità di materiale prodotto. Se togliamo dal concerto i momenti effettivi in cui Knxwledge è rimasto da solo sul palco, le chiacchierate di Anderson .Paak con il pubblico e il “bis”, posso confermare senza troppi problemi di aver sentito solo 30 minuti scarsi del pacchetto NxWorries. Attenzione, non sto dicendo che queste esibizioni devono, per forza di cose, durare un’eternità per divertirsi a mille: con i Superorganism, al Magnolia di Milano nel lontano 2018, rimasi completamente estasiato e felice per uno spettacolo di, appunto, mezz’ora, ma perché avevano anche esaurito tutte le loro canzoni e avevano regalato uno show unico. Qui, invece, il problema è stata una certa frettolosità e svogliatezza da parte sia di Knxwledge sia di Anderson .Paak nell’esibirsi, come se avessero altri impegni in agenda: non la mentalità che ci si aspetta di fronte a un pubblico da tutto esaurito. Anche il cosiddetto “bis” è arrivato dopo una decina di minuti di nulla cosmico, parso più un rattoppo piuttosto che una cosa nata spontanea dai due. Quello che (non) ci resta Non nascondo che ci sono stati dei momenti

Il fiasco dei NxWorries (Anderson .Paak e Knxwledge) al Fabrique di Milano Leggi tutto »

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