Stefano Cazzaro

Cose che ho ascoltato a gennaio

Qualche giorno fa ho commentato un Substack di DLSO (una delle poche cose di Instagram che mi mancano da quando l’ho abbandonato) sui dischi usciti la scorsa settimana. Scrivevo: «Se tutto il 2025 va com’è andato gennaio, io non so se arrivo alla fine dell’anno». DLSO mi ha risposto: «Gennaio è sempre un mese molto carico, se già vedi questa ultima settimana i volumi sono diminuiti. Vediamo febbraio». Il punto, però, non era la quantità, ma la qualità. Sapevamo che a gennaio sarebbero usciti certi dischi, ma non sapevamo che ci avrebbero colpito così tanto. Scrivo quindi a Matteo – padrone di casa, qui su bva – perché avevamo concordato che avrei recensito uno di questi album. Gli dico qualcosa del tipo: «So che avevo promesso quella recensione, ma gennaio è stato incredibile nel complesso. Che ne dici se scrivessi un pezzo sull’andamento dell’intero mese?». Lui accetta, anzi, rilancia: perché non farlo ogni mese? Vediamo, Matteo. Vediamo se trovo il tempo e se i prossimi mesi saranno all’altezza di gennaio. Nel frattempo, partiamo dalla fine. L’ultima settimana del mese ci ha portato Hurry Up Tomorrow di The Weeknd, un album massimalista per durata e sound, che sfiora costantemente il rischio di saturazione senza mai oltrepassarlo. Ogni volta che questo disco mostra i muscoli, infatti, lo fa con sostanza, intrecciando i sintetizzatori dell’elettronica e le batterie dell’R&B contemporaneo in un viaggio sonoro che, senza timore di esagerare, definirei di proporzioni colossali. Concedo ai detrattori il fatto che brani come Give Me Mercy e Red Terror non siano originali quanto gli altri e non si amalgamino perfettamente al concept dell’album, ma si tratta di un abbassamento quasi impercettibile della qualità complessiva. Dopo un’ora e ventiquattro minuti di disco, la sensazione è la stessa che ho avuto lo scorso anno con Cowboy Carter di Beyoncé: che la partita fosse già chiusa, che fossimo già davanti all’AOTY. Ma ovviamente spero di sbagliarmi. Andando indietro nel mese, troviamo EUSEXUA di FKA twigs, il disco più a fuoco della sua carriera. Un equilibrio quasi perfetto – e tra qualche riga ci torniamo, su quel “quasi” – tra la sperimentazione di LP1 e MAGDALENE, la leggerezza di CAPRISONGS e un orientamento pop che la cantautrice britannica non aveva mai mostrato in modo così chiaro. L’equilibrio, per l’appunto, quasi perfetto si spezza con Childlike Things, brano in collaborazione con North West, figlia undicenne del matto con i soldi Kanye, che vuole evidentemente essere un momento di leggerezza dopo tanto sforzo nel tenere insieme pop e sperimentazione, ma che, oltre ad adombrare la successiva Striptease – una delle migliori canzoni del disco –, finisce per togliere credibilità al percorso musicale costruito fino a quel momento. Un dettaglio che comunque non mina la nuova riconoscibilità acquisita da twigs nello scenario musicale contemporaneo grazie a questo disco: non più una copia un po’ sbiadita di Björk, non più un’artista che gioca con sonorità contemporanee, ma l’interprete di un pop che non si dà per scontato grazie alla sperimentazione e di una sperimentazione che trova una struttura precisa grazie al pop. Andiamo ancora a ritroso per incontrare Balloonerism di Mac Miller, un disco postumo perfettamente rappresentato dal suo stesso titolo: dal primo all’ultimo brano, infatti, si ha la sensazione di essere all’interno di un palloncino che fluttua verso l’alto – un’immagine che potrebbe suggerire leggerezza, se non fosse per il fatto che in un ambiente chiuso come un palloncino non si respira. In questo senso è estremamente rappresentativa una coppia di brani: in Excelsior sembra di poter volteggiare tra le nuvole grazie alle note di un pianoforte delicato e alla voce divertita di Mac, ma subito dopo, in Transformations, quello stesso pianoforte diventa ricorsivo e nauseante, mentre l’alter ego del rapper, Delusional Thomas, prende la parola per ricordarci che spesso le risposte ai nostri interrogativi si trovano nell’alcol e nelle droghe. In diverse recensioni ho letto che alcuni brani di Balloonerism sembrano abbozzati. Io non ho avuto questa sensazione; piuttosto, mi è sembrato che le cose che Mac Miller aveva ancora da dire e da fare fossero così tante da faticare a stare in un solo disco. Ne è la dimostrazione il fatto che spesso la durata dei brani supera i quattro minuti. Manca, inoltre, la direzione creativa chiara che Jon Brion aveva dato a Circles, l’altro album postumo di Mac, ma in compenso in Balloonerism c’è una creatività senza limiti e l’identità del rapper statunitense emerge con estrema trasparenza. Notevolissima, infine, è Tomorrow Will Never Know, che con i suoi 11 minuti e 53 secondi ci porta ai livelli più profondi dell’anima di Mac Miller, soprattutto grazie a una produzione angosciante e rarefatta dello stesso Mac, che si conclude con la sovrapposizione tra il suono di un telefono che squilla a vuoto e le grida di bambini che giocano. Facciamo un altro passo indietro e, a proposito di angoscia e profondità, arriviamo a Perverts di Ethel Cain, un cambio radicale rispetto alle atmosfere più convenzionali dei suoi lavori precedenti. Il dark ambient si fa sfacciato, affonda le sue radici nell’intero disco attraverso voci e strumenti distorti, ma in alcuni momenti sembra compiacersi un po’ troppo di se stesso: si pensi a Houseofpsychoticwomn, con i suoi 13 minuti e 35 secondi di distorsioni incessanti e gli “I love you” ripetuti fino allo sfinimento. In ogni caso, questo cambio di rotta ha dato un’identità più solida alla musica della cantautrice americana, che più che un album realizza un’esperienza sinestetica: ascoltandolo, la mente genera immagini simili a frame di Eraserhead di David Lynch. Il prossimo passo indietro ci porta a Porto Rico, fonte d’ispirazione per Bad Bunny nella composizione del suo nuovo disco, Debí tirar más fotos. La quantità di riferimenti alla musica tradizionale portoricana non è solo un valore aggiunto di per sé, ma permette anche di apprezzare ancora di più il genere in cui Bad Bunny si muove con maggiore disinvoltura: il reggaeton. La ricchezza sonora che ne deriva rende la sua musica più accessibile rispetto a Nadie sabe lo que

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Quando lo storytelling finisce: GNX di Kendrick Lamar

Kendrick Lamar – GNX (2024, pgLang) La vittoria di Donald Trump alle ultime elezioni statunitensi segna il tramonto di uno storytelling ossessionato dalla coerenza narrativa e apre le porte a un’era dominata dall’imprevedibilità. Mentre l’appello costante di Kamala Harris a difendere la democrazia si scontrava con i comizi-spettacolo del magnate americano, dall’humus culturale occidentale emergeva silenziosamente ma incessantemente un cambio di paradigma. Ma cosa c’entra tutto questo con GNX, il nuovo disco di Kendrick Lamar? È presto detto: nel corso della sua carriera, il rapper di Compton ha dimostrato un’eccezionale abilità nel cogliere e interpretare lo zeitgeist, leggendo con lucidità il clima sociale e politico del suo tempo. Se nei suoi lavori precedenti – come To Pimp a Butterfly, incentrato sull’identità afroamericana, o Mr. Morale & The Big Steppers, focalizzato sull’introspezione e la decostruzione del sé – Lamar costruiva narrazioni potenti e coerenti, con GNX sceglie di rompere gli schemi e sfidare le aspettative. Qui non ci sono cornici narrative definite, né un concept centrale che guidi l’ascoltatore: l’album si affida interamente alla sostanza, alle rime e ai beat, sfidando il pubblico a concentrarsi solo su ciò che conta veramente. GNX si inserisce in un panorama rap sempre più polarizzato, che oscilla tra la prevedibilità della trap alla Future e l’avanguardia sperimentale di artisti come JPEGMafia. Kendrick Lamar, come pochi altri, continua a tracciare una terza via, fondendo accessibilità commerciale e profondità stilistica in un equilibrio che lo rende unico. Abbandonando la ricerca di una coesione tematica rigida, il rapper di Compton lascia che sia il sound a dominare: la produzione, affidata a nomi del calibro di Jack Antonoff, Sounwave e Mustard, è impeccabile. Brani come hey now e tv off esibiscono beat che oscillano tra la tensione e l’esplosività, mentre tracce come luther e gloria, impreziosite dai featuring di SZA, richiamano un’anima soul che bilancia la potenza ritmica dell’album. Non mancano richiami alla West Coast con brani come reincarnated, che campiona addirittura 2Pac, e heart pt. 6, che attinge al repertorio delle SWV, intrecciando passato e presente della black music con straordinaria maestria. La cura nei dettagli produttivi si riflette non solo nella composizione dei beat, ma anche nel bilanciamento sonoro e nella profondità del mix, che esaltano la complessità strutturale del disco. Rimanendo nell’ambito delle gioie per le orecchie, ascoltare un album come GNX significa ricordare quanto sia fondamentale l’uso della voce nel rap, un genere che, non richiedendo particolari doti di estensione vocale, spesso riduce la voce a un semplice mezzo per trasmettere messaggi. Questa tendenza è particolarmente evidente nella trap, dove l’uso massiccio dell’autotune appiattisce le differenze tra molti artisti. Lamar, invece, si distingue per la sua straordinaria abilità interpretativa, che va ben oltre il virtuosismo tecnico: ogni sfumatura della sua voce è pensata per arricchire la narrazione e amplificare l’impatto emotivo. Un esempio emblematico è squabble up: nella prima parte del brano, prima che il beat raggiunga il drop, il tono della voce è alto, carico di tensione; con l’ingresso deciso della cassa, il tono si abbassa, diventando più profondo e assertivo, per poi tornare a salire con energia nei cori che seguono il ritornello. Questo dinamismo vocale non è un mero esercizio di stile, ma il frutto di un’intenzione artistica precisa. Kendrick Lamar non si limita a trasmettere un messaggio: lo vive, lo incarna e lo restituisce con un’intensità capace di creare un legame profondo con chi lo ascolta. La sua capacità di trasformare la narrazione in un’esperienza condivisa è una lezione che molti trapper, inclusi alcuni tra i featuring di GNX, dovrebbero tenere a mente. Con un lavoro così raffinato sull’interpretazione sarebbe facile trascurare i testi, ma Lamar non lascia nulla al caso. Le rime di GNX sono più taglienti che mai e affrontano senza esitazione argomenti spinosi come la faida con Drake e le critiche ricevute per essere stato scelto a esibirsi durante l’halftime show del Super Bowl al posto di Lil Wayne. Tuttavia il rapper di Compton non si limita alla polemica: nella già citata reincarnated esplora l’eredità della musica nera immaginando di reincarnarsi in due figure iconiche del passato, mentre gloria offre una riflessione lucida sul rapporto tra il rap e il peso della celebrità. Paradossalmente GNX potrebbe essere considerato il punto più basso nella discografia di Kendrick Lamar. Tuttavia il fatto che anche il suo lavoro meno incisivo sia così vicino al vertice – rappresentato, per il sottoscritto, da To Pimp a Butterfly – testimonia l’incredibile livello artistico raggiunto dal rapper di Compton. Quando i personaggi pubblici esauriscono la narrazione di sé, ciò che resta è la loro essenza autentica; sarebbe bello se il risultato di questa “operazione verità” non fosse mai un vuoto da riempire con show grotteschi, come presidenti che ballano per 40 minuti sulle note di YMCA, ma sempre la profondità di artisti capaci di incantare con qualità compositive, liriche e interpretative fuori dal comune. Stefano Cazzaro VOTO 0

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Jamie xx – In Waves: il primo della classe vuole farci ballare

Jamie xx – In Waves (Young, 2024) A nove anni dal sorprendente In Colour, Jamie xx ritorna con In Waves, un album che spazia con intelligenza dall’elettronica da club al pop sofisticato, integrando sapientemente sample R&B e soul degli anni Settanta e Ottanta. Questo lavoro non solo conferma l’eclettismo dell’artista britannico, ma offre anche un’esperienza sonora immediata e irresistibile, capace di far ballare senza compromessi. In Waves evoca perfettamente l’atmosfera claustrofobica del dancefloor, dove le luci stroboscopiche illuminano corpi sudati e stretti tra loro. Questa coesione, accompagnata da un senso di latente oppressione, potrebbe non convincere chi aveva apprezzato l’eterogeneità e il ritmo variabile di In Colour. Tuttavia un ascolto più attento svela una sorprendente varietà, da brani chiaramente orientati alla pista da ballo, come Treat Each Other Right e Baddy On The Floor, a pezzi in cui emerge un indie pop più definito, come Dafodil, con la voce ipnotica di John Glacier, e Waited All Night, con i restanti due terzi dei The xx: Romy, ma soprattutto Oliver Sim, che regala pelle d’oca non appena posa la sua voce delicata sulla base. Da non dimenticare anche l’uso raffinato di campioni R&B, come in Baddy On The Floor, in cui si riconosce facilmente il campione di Let Somebody Love You di Keni Burke. I singoli pubblicati prima dell’uscita dell’album avevano già dato un assaggio del livello di qualità e della tipologia di sonorità che Jamie intendeva proporre, ma i brani inediti riescono a essere ancora più intriganti. In particolare meritano una menzione speciale Breather, che, come suggerisce il titolo, è un momento di pausa dalle ritmiche incalzanti, la spensierata Still Summer e Every Single Weekend, che, per quanto sia un interludio, aggiunge profondità e malinconia alla precedente All You Children, arricchendo ulteriormente una canzone già memorabile. Il mixaggio è la ciliegina sulla torta, poiché esalta la brillantezza dei suoni che compongono l’album. La cassa-in-4, alcune volte protagonista e altre volte più discreta, si intreccia con campioni strumentali e vocali che variano costantemente in preminenza, senza mai oscurare le voci degli artisti ospiti, perfettamente bilanciate all’interno della complessità dei beat. In definitiva, In Waves rappresenta l’evoluzione ideale per Jamie xx. Se In Colour esplorava territori più raffinati e complessi, il nuovo disco dell’artista britannico ci catapulta al centro di quella catarsi pura che solo la danza può offrire. È come scoprire che il primo della classe, sempre impeccabile e preciso, non solo sa divertirsi, ma lo fa meglio di tutti. Stefano Cazzaro VOTO 0

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