Antonio Genovese

Italian Party 2024 – Un Festival Emo per Tutti

Genesi non programmatica di un’etichetta discografica To Lose La Track è un’etichetta discografica fondata nel 2005. Da quasi vent’anni scova e produce artisti accomunati da una matrice emo declinata nelle più diverse sfumature. Si va dall’emocore dei Fine Before You Came e dei Riviera al folk di Urali, passando per lo screamo degli Shizune. Un ventaglio di progetti accomunato dalla stessa cultura musicale, intesa non solo come l’insieme delle coordinate sonore e storiche delle band di riferimento del genere, ma come attitudine e approccio alla musica stessa, non destinata a rimanere stampata su disco, ma a prendere vita sera dopo sera, in live che rendano le note un mezzo per azzerare la distanza tra le band e il pubblico. Una musica che produca movimento, sudore, contatto tra i corpi. Una musica che riesca ad essere il collante sociale di una piccola comunità di persone. Sembrano esagerazioni, ma è da questi presupposti che nasce To Lose La Track, che prima di diventare ufficialmente un’etichetta vera e propria è stata per diversi anni un progetto di aggregazione, nato dalla volontà di Luca Benni (il fondatore dell’etichetta) di andarsene in giro per l’Italia a scoprire band e artisti e radunarli tutti insieme su un palco. L’obiettivo era quello di riunire “gruppi che suonano sotto al palco, in mezzo alla gente, e non sopra, di ragazzi intraprendenti che organizzano concerti chiamando tutto quello che c’era di meglio e poco conosciuto in Italia in quel periodo, che stampano dischi, spille e magliette con grafiche fichissime, di pubblico che si muove e fa chilometri per andare ai concerti”. Prima di To Lose La Track nasce quindi l’Italian Party, oggi considerato il festival di riferimento emo in Italia. La prima edizione si tiene nel 2003, prima ancora che una vera e propria scena italiana esistesse. Umbertide, paese natale di Luca Benni e sede dell’Italian Party da più di vent’anni, diventa l’epicentro della scena emo, un posto raggiunto ogni anno da persone sparse in tutta Italia che salgono in macchina o in treno per finire dritti nella Valle del Tevere, in un paesino di circa sedicimila abitanti che a fine luglio (i giorni del festival) sembrerebbe una città fantasma, se non si popolasse improvvisamente di maglie oversize con lunghe scritte, i nomi o i testi delle band che ormai sono la storia dell’emo italiano stampate sopra come manifesti fondativi del genere. È a Umbertide che prendono forma le band emergenti, altrimenti abituate a suonare in garage polverosi o in feste di paese che poco o niente hanno a che fare con la loro poetica; lì che viene presa la decisione di produrre con un certo rigore i loro primi album, finalmente emancipati dall’elettrostatica di musicassette autoprodotte; lì che i Giardini di Mirò e i Fine Before You Came si impongono come capisaldi della scena, capaci di influenzare il suono delle band che verranno. È lì che nascono le band che verranno, figlie delle collaborazioni tra chi sul palco ci suona o da chi ci vorrebbe suonare, una staffetta generazionale generata dalla voglia di perpetuare una certa cultura attraverso la musica. Effetto della veduta d’insieme sulla Valle del Tevere È il primo anno che partecipo all’Italian Party, giunto alla sua ventiduesima edizione. È anche il primo anno in cui il festival non si tiene a Umbertide, ma a Montone, comune adiacente situato a cinquecento metri dal livello del mare e che per questo guarda Umbertide dall’alto. Una tradizione ventennale spazzata via da “UmBEERtide” il festival della birra artigianale organizzato nello stesso fine settimana, e che non credo abbia ottenuto il successo sperato. A Montone gli abitanti sono ancora meno – circa 1500 – e per chi non è arrivato in auto deve essere stato complicato trovare un modo per fare la spola tra i due comuni. Se la scelta di spostare la location ha creato problemi logistici, il festival ne ha sicuramente guadagnato in estetica. Montone è il tipico paesino umbro situato sul cucuzzolo di una collina. Le mura che ne delimitano il confine come le cinta in pietra di un enorme castello, la verticalità delle casette dai tetti spioventi affacciate sulle piazzette del Paese, sui bar e i panifici che accolgono un numero inaspettato di persone, la vista panoramica che offre agli occhi una valle verde e rigogliosa. Tutto questo rende anche l’attesa dei concerti piacevole, dal passeggiare per le viuzze inclinate quasi di quarantacinque gradi al girare per gli stand con una birra in mano, in cerca di una maglietta o una tote bag da acquistare. I palchi del festival sono due: il main stage è situato sul campetto all’aperto di basket comunale, con il palco sotto uno dei due canestri e davanti a una rete da calcio a cinque. La sensazione è di trovarsi a una festa liceale, con le coppiette o gli stanchi stesi sui prati ai lati del campo che fanno da spalti immaginari. Si può assistere ai concerti da ogni angolo del palco, anche dal retro. L’acustica è ottima e le band ben visibili. Il secondo palco è incassato tra le tre mura di una torretta in pietra costruita centinaia di anni fa, nel punto più alto di Montone. È una delle location più suggestive in cui sia mai stato, ma anche, forse, la più limitante: il suono è attutito dalla densità dei corpi sotto il palco, non libero di propagarsi ai lati della struttura, cintata dalle mura in pietra; la visibilità è ridotta subito dopo le prime file, e la terra è coperta di piccoli sassolini ma anche di massi appuntiti su cui è facile cadere, considerato il pogo e lo stage diving a ogni concerto. Ogni band suona in media per mezz’ora, e i concerti si alternano tra il main stage e il palco secondario senza pause tra una performance e l’altra. Questo rende praticamente impossibile non perdersi almeno cinque minuti di una delle band che suona prima o dopo il gruppo a cui decidiamo di dare la priorità: anche in un festival così piccolo e con pochi palchi è

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Recensione: The Antlers – Green To Gold

L’oro fa capolino nella copertina di Green to Gold, riempiendo gli spazi lasciati liberi dall’enorme figura di un albero verde smeraldo che si staglia davanti ai nostri occhi: il tronco grosso, i rami folti, la luce che passa solo alla base o attraverso qualche spiraglio della chioma. Balena alla mente, forse per una banale associazione di colori, l’idea del kintsugi, l’arte giapponese che consiste nel riparare oggetti in ceramica utilizzando l’oro per saldare insieme i frammenti. Questa tecnica di restauro ha anche un forte valore simbolico come rimedio per le fratture, le crisi e i cambiamenti che l’individuo può trovarsi ad affrontare nel corso della propria vita, ferite che però possono portare a una crescita interiore se curate e valorizzate in un certo modo. Di ferite da rimarginare Peter Silberman, frontman degli Antlers, ne ha accumulate a sufficienza in questi anni: la continua sensazione di essere infinitesimali al cospetto dell’universo; una “relazione psicologicamente violenta”, raccontata in maniera autobiografica in “Hospice”; acufene ad un orecchio, ipersensibilità all’altro, lesioni vocali e stanchezza fisica che lo avevano colpito tutte insieme dopo l’uscita di “Familiars”, ultima fatica della band in ordine di tempo. Proprio la malattia aveva ridotto Silberman al riposo forzato da cui era scaturito un album solista, intimo e scarnificato all’osso come “Impermanence”, diario di una guarigione fatta di alti e bassi, momenti di sollievo e ricadute, che avevano aiutato l’artista a ripensarsi e a ripensare ciò che lo circonda, facendo tesoro delle esperienze maturate. Green to Gold sembra la naturale prosecuzione del percorso musicale e personale intrapreso da Silberman nel 2006, ponendosi idealmente come la chiusura di un cerchio. È la ciclicità infatti l’elemento di lettura di un album che ha come concept principale il susseguirsi delle stagioni, metafora delle diverse fasi di una vita. Il calmo frinire dei grilli e delle lucciole accompagna l’entrata di una batteria che scandisce Strawflower, traccia strumentale che apre l’album su un giro di accordi arricchito di volta in volta dall’entrata di uno strumento nuovo, schiudendosi dolcemente come un fiore che sboccia. La voce di Silberman si insinua in Wheels Roll Home, dove il tempo è dalla parte dei giovani e il ritorno a casa è lontano, consapevoli però che prima o poi a casa si dovrà tornare. Scivoliamo lentamente in “Solstice”, che rappresenta l’apice del concept non solo in senso letterale: è il momento in cui lo splendore della propria vita è allo zenit, ma già si percepiscono ombre addensarsi all’orizzonte; tentiamo di trattenere la luce, sapendo che inevitabilmente sbiadirà da qui in avanti. Solstice è anche il manifesto musicale degli ultimi Antlers: lo sciabordio dell’acqua, come i versi di insetti presenti qui e lì nello scorrere dell’album, sostituiscono i droni e i sintetizzatori che delineavano i contorni ed erano anche l’essenza di “Hospice” e “Burst Apart”. La voce di Peter non può o non vuole più raggiungere le vette a cui aveva abituato in passato, e così il falsetto e i picchi vocali talvolta strazianti delle uscite precedenti cedono il passo a un tono soffiato, sommesso ma al contempo cristallino che segue le pieghe del brano, proprio come l’acqua si accomoda tra gli argini di un ruscello. L’esperienza da solista di Silberman, la necessaria pratica del silenzio e dell’attenzione al suono di ogni singolo strumento hanno cambiato l’approccio alla composizione degli Antlers: l’abbandono del gruppo di Darby Cicci, la cui tromba era stata la colonna portante di “Familiars”, se da un lato ha privato l’ormai duo di una certa varietà stilistica, dall’altro gli ha permesso di ripensarsi, abbracciando un suono minimalista. Si lavora per sottrazione, eliminando dalla tavolozza alcuni colori, ma combinando i restanti in maniera originale. frameborder=”0″ allowfullscreen=”allowfullscreen”> Così, i crescendo emozionali a cui ci avevano abituati non stanno più negli improvvisi muri di suono shoegaze, né nell’incedere trionfale della tromba, ma nella lenta costruzione di ogni pezzo: le pause calcolate e l’utilizzo della slide guitar in “Just One Sec”, un tocco di sassofono in “It Is What It Is”, l’ipnotico incedere dei piatti di batteria in “Volunteer”, che sembrano il tappeto di foglie su cui procediamo avvicinandoci alla fine dell’album. La tensione emotiva sale, ma non rischia mai di detonare, e nemmeno l’ascoltatore si aspetta che lo faccia. Tutto procede  in maniera controllata, come nelle intenzioni di Silberman, che voleva un album che suonasse come la musica della domenica mattina. Il rischio di un album basato su ripetizioni e piccole variazioni è che la mancanza di picchi lo appiattisca troppo, rendendo sottile il confine tra la contemplazione e la distrazione. È in ogni caso piacevole lasciarsi trasportare dalle carezze della voce di Silberman, che tra un tintinnio di chitarra e un tocco leggero di pianoforte accenna a una certa inquietudine per il tempo che passa e appesantisce (“Just One Sec”), alle protezioni che iniziano a scheggiarsi con gli anni (“Volunteer”). Così, senza che ce ne rendiamo conto, “l’estate è agli sgoccioli”, e veniamo proiettati alla fine del viaggio, nell’imbrunire di giornate sempre più brevi, pronti ad affrontare l’argento dei nostri capelli come le foglie fanno accogliendo l’oro. E mentre scendiamo a patti con l’idea di invecchiare, accogliendo con serenità chi siamo stati e come abbiamo vissuto, il pianoforte di “Equinox” sancisce la fine del viaggio. Di equinozi, in un anno, ce ne sono due: quello autunnale, che fa da preludio al buio invernale, e quello primaverile, che apre le porte al rinnovamento; che si tratti di un nuovo viaggio, o dell’inizio della sua fine, Silberman non ha dubbi: lo si affronterà con l’oro tra i nostri frammenti e la pace nel cuore. P.S. per chi volesse godere di un’esperienza a 360°, è stato girato un film che fa da sfondo all’album, dove due ballerini di danza contemporanea interpretano le scene di vita di una coppia in una cornice bucolica, che amplificano l’intensità e la dolcezza della musica. frameborder=”0″ allowfullscreen=”allowfullscreen”> Antonio Genovese VOTO

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Recensione: The National – First Two Pages Of Frankenstein

Matt Berninger è invecchiato. Nel fisico, con gli occhiali da vista a cerchiare quegli occhi azzurri penetranti come una radiografia, la stempiatura che si allunga su una fronte un tempo ricoperta di ricci biondi, l’assenza dell’iconica bottiglia sul palco. Nello spirito, con il tono della voce dimesso, quasi arrendevole; le parole che si trascinano stanche e spezzate nelle inflessioni di corde vocali indebolite dal passare degli anni. Ce ne accorgiamo subito, a partire dalle prime note di Once Upon a Poolside prima traccia dell’ultimo capitolo firmato The National, che mai come stavolta sembra fungere da diario segreto per Matt, un luogo in cui possa riversare le paure e le ansie che lo avevano attanagliato negli ultimi anni e da cui aveva fatto così tanta fatica ad uscire. Sembra quasi inutile ribadirlo, ma come tutti i lavori dei National anche il nono album della band non è d’immediata facilità d’ascolto. Stavolta però, le difficoltà nell’approcciarsi a un lavoro di questo tipo non sono dovute alle sperimentazioni di Sleep Well Beast, con le chitarre distorte e le drum machine ad imprimere una nuova rotta alla band; né tantomeno alle aperture orchestrali e all’introduzione di voci femminili di I Am Easy to Find, l’album più eterogeneo e ambizioso che il gruppo abbia partorito nella sua storia ormai ventennale. O meglio, tutti questi elementi sono condensati nel nuovo lavoro come una sintesi naturale ed equilibrata del percorso svolto finora, ma sono posti sullo sfondo, per fare da contraltare alla voce di Matt, vera protagonista dell’album. E il motivo per cui ci è così difficile accostarci all’album, a farlo nostro del tutto, è proprio la presenza di quella voce – sempre meno – baritonale che si apre senza più filtri, abbandonando quasi del tutto immagini, metafore o qualsivoglia barriera tra l’autore e il suo lavoro. Everything I love is on the tableEverything I love is out to sea Cantava Matt dieci anni fa in Don’t Swallow the Cap, ed ora quelle parole risuonano prepotenti mentre ci porta per mano negli angoli più reconditi e oscuri della sua mente. Ci racconta per tutto l’album, come in un flusso di coscienza lungo cinquanta minuti, del suo blocco dello scrittore, della conseguente depressione, della paura di salire sul palco ogni sera, quando a malapena riusciva a parlare. Ci parla di alienazione e di relazioni – la sua relazione – pericolosamente vicine al punto di rottura, quando sembra che l’amore non possa bastare da solo a tenerle in piedi. Varcare completamente la soglia, immergersi totalmente nella sua storia personale, richiede uno sforzo non banale: ci sembra quasi di profanare un diario, introdurci in uno spazio che non è pensato per essere violato, anche se siamo stati gentilmente invitati. Parafrasando Green Gloves, entriamo nei suoi vestiti, nel suo letto, nella sua testa, con i nostri guanti verdi da chirurgo. Eppure, mentre ci immergiamo sempre più a fondo in un racconto fatto di ricordi, nostalgia e voci spezzate, ci accorgiamo di quanto esso sia universale. Le immagini che ci scorrono nelle orecchie sono talmente specifiche da apparire facilmente sostituibili con le nostre esperienze, senza che la storia perda efficacia. Non ci viene imposta una narrazione esterna a cui dobbiamo sottostare e adattarci, ma è la stessa narrazione che prende la forma delle nostre paure, dei nostri dolori e del nostro amore. La sua vita diventa la nostra e le sue esperienze diventano le nostre, in un gioco di specchi mai così riuscito: siamo noi che impacchettiamo i vinili e discutiamo su chi debba tenerseli dopo una separazione in Eucalyptus; siamo noi, in New Order T-Shirt che guardiamo la persona che amiamo aspettarci ai piedi di un grattacielo per andare a bere qualcosa, come se fosse appena uscita da un film degli anni ’70; siamo ancora noi, in Your Mind Is Not Your Friend che cerchiamo di convincerci ad andare avanti, che quello che stiamo provando non sia niente, quando dentro di noi sappiamo che non è così e che stiamo vivendo un momento di breakdown emotivo.  First Two Pages of Frankenstein prende ascolto dopo ascolto la forma di un percorso terapeutico, un viaggio verso la guarigione che, come tutti i viaggi di questo tipo, appare tortuoso e doloroso, ma che alla fine dona i suoi frutti. Possiamo comunque alleggerirne il peso, condividendo il percorso con gli altri. Matt lo fa con noi, attraverso la distruzione quasi totale delle barriere tra autore, opera e pubblico. Ma soprattutto lo fa appoggiandosi, in fase di creazione, alle numerose collaborazioni che troviamo sparse per tutto l’album. I featuring con Sufjan Stevens, Phoebe Bridgers, Taylor Swift, sono deboli comparsate che non hanno un impatto musicale, quanto piuttosto emotivo. In The Alcott è Taylor Swift a “Nationalizzarsi”, come del resto le era accaduto per gli album prodotti sotto la guida di Aaron Dessner; Stevens contribuisce donando un’atmosfera rarefatta, quasi eterea a Once Upon a Poolside, ma è un tocco che si sposa alla perfezione con le caratteristiche della band di Cincinnati; la voce di Phoebe, nelle due tracce firmate anche a suo nome, si accomoda sullo sfondo, senza salire in cattedra come qualche anno fa era accaduto a Lisa Hannigan in So Far So Fast. E allora, anche dalle parole dello stesso Berninger, ci appare palese di come l’apporto al processo creativo sia stato principalmente emotivo: Lei sa di essere brava a definire ciò che odia di sé, ed io ero immerso in una zona di auto-odio e ho pensato: “Beh, d’accordo, è di questo che dovresti scrivere Tutte queste voci si sono rivelate una mano tesa alla band nel momento del bisogno, quando gli stessi membri non sapevano se il percorso avrebbe avuto un seguito o si sarebbe arrestato improvvisamente, schiacciato dal peso delle singole storie. È stato un po’ come raccogliere con gli interessi tutto ciò che i National avevano seminato in questi anni grazie al loro modo di intendere la musica: collaborativo, aperto alle contaminazioni e alle influenze degli altri autori per crescere ed aiutare a crescere, senza perdere la propria natura.

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