Genesi non programmatica di un’etichetta discografica
To Lose La Track è un’etichetta discografica fondata nel 2005. Da quasi vent’anni scova e produce artisti accomunati da una matrice emo declinata nelle più diverse sfumature. Si va dall’emocore dei Fine Before You Came e dei Riviera al folk di Urali, passando per lo screamo degli Shizune. Un ventaglio di progetti accomunato dalla stessa cultura musicale, intesa non solo come l’insieme delle coordinate sonore e storiche delle band di riferimento del genere, ma come attitudine e approccio alla musica stessa, non destinata a rimanere stampata su disco, ma a prendere vita sera dopo sera, in live che rendano le note un mezzo per azzerare la distanza tra le band e il pubblico. Una musica che produca movimento, sudore, contatto tra i corpi. Una musica che riesca ad essere il collante sociale di una piccola comunità di persone.
Sembrano esagerazioni, ma è da questi presupposti che nasce To Lose La Track, che prima di diventare ufficialmente un’etichetta vera e propria è stata per diversi anni un progetto di aggregazione, nato dalla volontà di Luca Benni (il fondatore dell’etichetta) di andarsene in giro per l’Italia a scoprire band e artisti e radunarli tutti insieme su un palco. L’obiettivo era quello di riunire “gruppi che suonano sotto al palco, in mezzo alla gente, e non sopra, di ragazzi intraprendenti che organizzano concerti chiamando tutto quello che c’era di meglio e poco conosciuto in Italia in quel periodo, che stampano dischi, spille e magliette con grafiche fichissime, di pubblico che si muove e fa chilometri per andare ai concerti”.
Prima di To Lose La Track nasce quindi l’Italian Party, oggi considerato il festival di riferimento emo in Italia. La prima edizione si tiene nel 2003, prima ancora che una vera e propria scena italiana esistesse. Umbertide, paese natale di Luca Benni e sede dell’Italian Party da più di vent’anni, diventa l’epicentro della scena emo, un posto raggiunto ogni anno da persone sparse in tutta Italia che salgono in macchina o in treno per finire dritti nella Valle del Tevere, in un paesino di circa sedicimila abitanti che a fine luglio (i giorni del festival) sembrerebbe una città fantasma, se non si popolasse improvvisamente di maglie oversize con lunghe scritte, i nomi o i testi delle band che ormai sono la storia dell’emo italiano stampate sopra come manifesti fondativi del genere. È a Umbertide che prendono forma le band emergenti, altrimenti abituate a suonare in garage polverosi o in feste di paese che poco o niente hanno a che fare con la loro poetica; lì che viene presa la decisione di produrre con un certo rigore i loro primi album, finalmente emancipati dall’elettrostatica di musicassette autoprodotte; lì che i Giardini di Mirò e i Fine Before You Came si impongono come capisaldi della scena, capaci di influenzare il suono delle band che verranno. È lì che nascono le band che verranno, figlie delle collaborazioni tra chi sul palco ci suona o da chi ci vorrebbe suonare, una staffetta generazionale generata dalla voglia di perpetuare una certa cultura attraverso la musica.
Effetto della veduta d’insieme sulla Valle del Tevere
È il primo anno che partecipo all’Italian Party, giunto alla sua ventiduesima edizione. È anche il primo anno in cui il festival non si tiene a Umbertide, ma a Montone, comune adiacente situato a cinquecento metri dal livello del mare e che per questo guarda Umbertide dall’alto. Una tradizione ventennale spazzata via da “UmBEERtide” il festival della birra artigianale organizzato nello stesso fine settimana, e che non credo abbia ottenuto il successo sperato. A Montone gli abitanti sono ancora meno – circa 1500 – e per chi non è arrivato in auto deve essere stato complicato trovare un modo per fare la spola tra i due comuni. Se la scelta di spostare la location ha creato problemi logistici, il festival ne ha sicuramente guadagnato in estetica. Montone è il tipico paesino umbro situato sul cucuzzolo di una collina. Le mura che ne delimitano il confine come le cinta in pietra di un enorme castello, la verticalità delle casette dai tetti spioventi affacciate sulle piazzette del Paese, sui bar e i panifici che accolgono un numero inaspettato di persone, la vista panoramica che offre agli occhi una valle verde e rigogliosa. Tutto questo rende anche l’attesa dei concerti piacevole, dal passeggiare per le viuzze inclinate quasi di quarantacinque gradi al girare per gli stand con una birra in mano, in cerca di una maglietta o una tote bag da acquistare.
I palchi del festival sono due: il main stage è situato sul campetto all’aperto di basket comunale, con il palco sotto uno dei due canestri e davanti a una rete da calcio a cinque. La sensazione è di trovarsi a una festa liceale, con le coppiette o gli stanchi stesi sui prati ai lati del campo che fanno da spalti immaginari. Si può assistere ai concerti da ogni angolo del palco, anche dal retro. L’acustica è ottima e le band ben visibili. Il secondo palco è incassato tra le tre mura di una torretta in pietra costruita centinaia di anni fa, nel punto più alto di Montone. È una delle location più suggestive in cui sia mai stato, ma anche, forse, la più limitante: il suono è attutito dalla densità dei corpi sotto il palco, non libero di propagarsi ai lati della struttura, cintata dalle mura in pietra; la visibilità è ridotta subito dopo le prime file, e la terra è coperta di piccoli sassolini ma anche di massi appuntiti su cui è facile cadere, considerato il pogo e lo stage diving a ogni concerto. Ogni band suona in media per mezz’ora, e i concerti si alternano tra il main stage e il palco secondario senza pause tra una performance e l’altra. Questo rende praticamente impossibile non perdersi almeno cinque minuti di una delle band che suona prima o dopo il gruppo a cui decidiamo di dare la priorità: anche in un festival così piccolo e con pochi palchi è necessario scegliere le proprie battaglie.
It turned out to be punk
Il mio personale battesimo con l’emo italiano (dal vivo) viene per mano di Massimiliano Porro, in arte Massi Lanciasassi, ed è quanto di più lontano mi potessi aspettare da un concerto emo (che infatti non è): Porro propone un un punk-rock in chiave cantautorale, provando a tessere “racconti musicali tra Folk, Punk e Rock’n’roll con Jonathan Richman, Violent Femmes ed il primo Edoardo Bennato nel cuore”. Il risultato è una sorta di libro per le fiabe in cui doppi sensi e giochi di parole demenziali si susseguono, declamati su giri di accordi che ricordano le filastrocche di quando eravamo bambini. Non è un caso che molte famiglie con figli di quattro o cinque anni restino lì ad ascoltare al riparo dal sole delle cinque, sorseggiando qualcosa di fresco mentre si godono un’atmosfera tranquilla e rilassata.
Mezz’ora più tardi, sul palco principale, suona Girless, unico superstite del progetto Girless and the Orphan. Tommaso Gavioli ha dato vita al suo progetto solista nei ritagli di tempo trovati nelle pause dal suo lavoro di medico. In questi contesti il professionismo non è la regola, e la musica diventa compagna in un percorso di vita che non la pone al primo posto incondizionatamente. È una compagna tranquilla, che accetta di condividere il suo ruolo con altre passioni, con la necessità di guadagnare o di avere una vita più stabile, senza che nulla venga sacrificato forzosamente al suo altare. La musica di Gavioli ne è la prova nei fatti oltre che nelle intenzioni, con il cantautore che collabora con musicisti di altre band o di altri cantautori per suonare dal vivo: Ivan Tonelli, ad esempio, autore del progetto Urali e chitarra di accompagnamento deliziosa nel live di Girless, che ha portato dal vivo il suo ultimo lavoro “Los de afuera son de palo”, prodotto dallo stesso Tonelli. Anche qui i ritmi non sono eccessivamente alti, derivati da un suono di matrice cantautorale reso leggermente più ruvido dalla dimensione live, senza snaturarne la natura intimista.
Una cosa importante
Seguono i Real Terms, una delle due band internazionali chiamate al festival, che propongono un math rock addolcito dalle sonorità midwest emo, debitrici degli onnipresenti American Football che hanno fissato le coordinate musicali di molti gruppi d’oltralpe (lo stesso discorso vale per gli Sport, che suoneranno più tardi). È una performance da cui non si può non restare rapiti, per il modo in cui il gruppo padroneggia gli strumenti e allo stesso tempo riesce a dare valore alla propria poetica attraverso piccole sfumature che rendono la spigolosità del math così delicata. Completamente soggiogato, un’ora dopo sono al loro stand per acquistare una loro maglietta, ed è il chitarrista/voce della band, John (mi dice solo il nome), che me la vende. Ci fermiamo a fare due chiacchiere: mi dice che è di Liverpool, che ha vissuto per qualche tempo a Londra e che ama questo festival, l’atmosfera che si vive qui. La distanza tra band e pubblico, all’Italian Party, non viene abbattuta soltanto durante i concerti, ma anche dopo, quando in teoria un artista e il suo seguito non avrebbero modo di incontrarsi. Qui ci si ritrova pochi minuti dopo a supportarli attivamente acquistando il merchandising, a fargli domande su come hanno iniziato, quali sono le sue influenze o si sta insieme ad ascoltare la prossima band. Certo, si può avere tutto questo perché gli artisti non sono così famosi ed è più facile creare l’interazione senza che si formi inevitabilmente una calca attorno a loro. Ma è anche il nostro atteggiamento che cambia: c’è meno timore reverenziale, più genuinità nell’interazione stessa; ci sentiamo meno stupidi a rivolgere la parola a qualcuno con cui abbiamo condiviso un momento intimo pochi minuti prima, e ora è davanti a noi a venderci una maglietta, ricordandoci che il confine tra chi produce e chi fruisce di arte è più labile di quello che si pensi, e qualche volta è solo frutto del momento, del contesto, delle occasioni o delle scelte che si sono compiute nella vita.
Dopo i Real Terms, al “campetto” suonano i Liquami, sorta di superband formata da Jacopo Lietti dei Fine Before You Came, Generic Animal, Tommaso Renzini (chitarrista dei Dummo), Giacomo Ferrari (batterista degli Asino) e Marco Giudici (produttore e bassista), assente giustificato perché in tour con Adele Altro, in arte Any Other. La sua assenza si fa sentire perché il gruppo, privato della sua componente screamo, si appoggia quasi interamente su Jacopo Lietti, che carica ed enfatizza il lato surreale e nonsense del progetto. Senza qualcuno che faccia da contrappeso le esagerazioni di Lietti perdono il loro slancio, e dopo un po’ diventano ripetitive. È comunque un concerto intrattenente, che però oscilla pericolosamente tra l’interessante e il weird, e c’è la sensazione che la ricerca del ‘sopra le righe a tutti i costi’ abbia reso lo spettacolo un po’ meno vero, meno sentito.
Terra violenta… solo se ci cadi
Dopo una pausa di un’oretta (pausa mia, non certo delle band che continuano ad alternarsi sui due palchi), è il turno dei Vilma, che portano in scena il loro nuovo album “Viva il Male”, a dieci anni dal loro debutto. Sorprende come testi così emotivi e coinvolgenti, spesso scuri e accompagnati da chitarre distorte e una sezione ritmica solida, siano declamati con gioia inscalfibile da Olmo, la voce della band. Per mezz’ora ammiro questa controfigura di Pep Guardiola (sarà stato il gioco di luci puntate sul capo rasato a darmi questa impressione) in estasi, che scende tra il pubblico con un sorriso a trentadue denti per cantare di sogni infranti, crepe del mondo e voglia di rinascita. È un’occasione per far diventare quel dolore gioia di condividerlo, di rendersi vulnerabili agli altri e scoprire di non essere soli, un modo per trasformare le paure e le incertezze sul futuro una catarsi collettiva.
È catarsi collettiva anche il concerto dei Riviera, che ha rappresentato l’apice della serata. È qui che il coinvolgimento del pubblico si fa serio, sempre più ragazzi lanciati nel tritacarne di un pogo frenetico, un vortice di mani e di gambe che non si arresta nemmeno per un istante dei quaranta minuti di concerto. Sulla mia testa altre gambe, altre mani, altri volti: lo stage diving di decine di ragazze e ragazzi non mi permette di rifiatare, sempre in cerca di qualcuno da sorreggere, provando a far continuare quell’onda all’infinito. È una situazione rischiosa, potenzialmente pericolosa, che però mette in luce il lato migliore di questo Italian Party: la ricerca di contatto umano e di empatia, la condivisione di uno spazio collettivo nel pieno rispetto dell’altro. Colpisce l’attenzione spasmodica con cui ognuno si accerta che l’altro si trovi a suo agio, e allo stesso tempo sia libero di esprimersi completamente, in un contesto che sia prima di tutto sicuro. Ad ogni caduta segue la creazione di uno spazio, un cerchio libero da gambe e popolato da mani che si fanno appiglio per chi momentaneamente si ritrova a terra. Le teste di chi surfa la folla sono sorrette come quelle di bambini appena nati, con la differenza che i corpi di cui farsi carico qui non pesano pochi chili: si accetta di compiere sforzi fuori dall’ordinario per mantenere gli altri al sicuro, per permettergli un fugace momento di felicità mentre cavalcano la loro personale onda, fino a quando i corpi di chi sorregge, esausti, accompagnano dolcemente a terra il fortunato. È la musica dei Riviera la miccia di quest’entropia controllata, il motore di un movimento che per quanto ne so, trasportato su un piano dell’esistenza altro rispetto a chi costeggiava il campetto da basket, potrebbe essere durato pochi secondi come qualche ora. È una musica fatta di chitarre ruvide, sporche, che non lasciano riposo alle note in nessuna frazione di canzone, proprio come il movimento che genera sotto il palco. È anche una musica fatta di epica, di crescendo emozionali che risolvono in assoli di trombe e slanci vocali che accompagnano l’ascesa dei surfisti, facendo i Riviera la perfetta colonna sonora per gli attori sotto il palco.
Spaccare il mondo
Il festival è allo zenit, e senza soluzione di continuità si alternano sui due palchi gli Shizune, gli Sports e gli Stegosauro, prima del gran finale dei Raein, formazione romagnola sulla scena da più di due decenni. Il ritmo è frenetico, asfissiante, si corre da una parte all’altra per unirsi a un pogo dopo l’altro, i poveri fotografi che rischiano la loro attrezzatura come fanno i pescatori con le loro canne, trascinate da prede sempre più ambiziose. Un mio amico, giunto da Roma per l’occasione, è costretto a cambiare macchina fotografica per evitare che una più ingombrante finisca calpestata durante il concerto degli Shizune, con il loro screamo difficilmente digeribile nel contesto del festival. Gli Sports, band di Lione che suona subito dopo, riportano il suono su binari più dolci, con un midwest emo quasi etereo; ogni nota è il tassello di un piccolo mosaico minimale del genere, su cui le gambe dei fan ballano in modo spensierato. Viene meno il tono magniloquente dei Riviera, a cui si sostituisce una certa leggerezza. Gli Stegosauro mettono in scena uno spettacolo godibile, mentre sopra le nostre teste non calano più corpi ma materassini gonfiabili a forma di coccodrillo. La stanchezza inizia a farsi sentire, e molti riservano le ultime energie per il concerto dei Raein, così il loro concerto passa un po’ in sordina.
Alle 23:45 siamo tutti sul campetto da basket per il gran finale, pronti a concederci ai Raein per l’ultimo grande ballo. Soddisfacente a metà, perché tutta la carica emotiva e fisica viene smorzata dai continui problemi tecnici incontrati dalla band romagnola. L’impianto acustico salta una, due, tre volte prima di trovare il problema (il microfono di Andrea Console, voce). Si continua senza, allora con Console che cerca di sovrastare la musica cantando da un microfono non funzionante, un esercizio inutile e commovente al tempo stesso, per lo sforzo che produce pur senza risultati. Tutt’intorno, però, tutto procede come se niente fosse accaduto: si continua a lanciarsi nella mischia, a cavalcare, a sgolarsi quasi provando a infondere forza alla voce di Console, che non ne ha più. Non c’è più differenza tra band e pubblico, non solo metaforicamente; anche le distanze vengono cancellate, e molti approfittano del caos per farsi strada anche solo per un attimo nella lunetta da due che dovrebbe delimitare idealmente il palco.
Un peccato a metà che il festival sia stato chiuso così, con un gruppo storico costretto a suonare a mezzo servizio. Esaltante osservare come gli inconvenienti abbiano tirato fuori il meglio da chiunque abbia partecipato a quella festa collettiva, ognuno pronto a cantare più forte, a spremersi fino a che ne ha avuto per cercare di sistemare le cose. A cercare di tenere viva la fiammella di una cultura che lotta per sopravvivere in un ambiente ostile, minacciata dal disinteresse generale per un genere che prolifera nel sottobosco musicale italiano ma che non ha la forza di imporsi, anche per l’assenza di etichette discografiche che credano in progetti coraggiosi, pur accettando qualche rischio in più. To Lose la Track lo fa da vent’anni, mostrando che salvaguardare la fiamma è possibile. A qualcun altro spetterà il compito di diffonderla ancora con più forza.
Epilogo
Le campane della chiesa di Montone annunciano un altro giorno. Rintocchi che ogni quarto d’ora rendono il corpo consapevole di sé, un corpo che cerca di scivolare di nuovo nel sonno per lasciarsi indietro ancora per un po’ le scorie di una serata difficile. Il risveglio è fatto di piccoli dolori, qualche abrasione qua e là e un volto leggermente gonfio. La stanchezza deve cedere alla necessità di muoversi, lasciare la stanza del piccolo B&B per tornare a casa, a una Napoli che mi terrà a digiuno da tutto questo per un anno intero (altre band, altri suoni, tutto così lontano dall’atmosfera dell’Italian Party). Il rientro però dovrà aspettare ancora qualche ora, perché a Umbertide, come ogni anno, si tiene l’aftershow del festival. Una cosa piccola, un set acustico a mezzogiorno in un centro culturale vicino la piazza principale, in un vicoletto al riparo dai 35 gradi che picchiano violenti sul paesino. Lì, sulla soglia dell’edificio, Ivan Tonelli è seduto imbracciando una chitarra acustica, dando vita alle composizioni del suo progetto solista. Il suo folk etereo ci accompagna verso la fine di due giorni intensi, fatti di lunghi viaggi, sudore e un sistema uditivo compromesso. Gli arpeggi di Tonelli, in arte Urali, sono il perfetto balsamo per rientrare nella quiete di una domenica pomeriggio qualunque.
Ringraziamo per le foto che vedete nell’articolo Andrea Giglio.