Buongiorno. Provo ad alzarmi dal letto, ma le mie gambe cariche di un buon centinaio di migliaia di passi nei giorni precedenti non sembrano entusiaste quanto me. Poco importa, se ne dovranno fare una ragione perché oggi è l’ultimo giorno di festival e questa volta dobbiamo per forza arrivare al Forum per le 17, che per il nostro fuso orario è l’equivalente di arrivare sul posto di lavoro alle 6 del mattino.
Il motivo? Due ragazzini di 20 e 23 anni che si sono circondati di gente del calibro di Anderson .Paak, Snoop Dogg, Busta Rhymes, Mac DeMarco e Herbie Hancock, tutti interessati a comparire nel loro primo album NOT TiGHT pubblicato lo scorso anno.
Sto parlando di DOMi & JD Beck, che con un’innocenza che veniva spesso mischiata ad un’esperienza e sicurezza che non dovrebbero avere per questi palchi passavano il tempo a parlare con un pubblico già rapito da un talento percepibile anche senza avere mai toccato un piatto di una batteria o un tasto di un pianoforte.
Tra le tante bellissime cose sentite da loro, degnissimo di nota un medley su Madvillainy, disco di MF DOOM che considero forse l’album rap con la migliore produzione della storia, suonato come se nulla fosse e in alcuni anche reinterpretato magistralmente. Se c’è una cosa che ho capito da questo festival è che per il futuro siamo in buonissime mani.
Un po’ in stato confusionale ci dirigiamo poco più avanti per vedere esibirsi i Wednesday, altra band emergente che ha ribaltato negli scorsi mesi pubblico e critica con il loro album Rat Saw Gold: un mix letale di shoegaze spesso travestita da post-punk e country(!), con una lead vocalist come Karly Hartzman che è destinata a fare parlare di sé per il suo stile. Sicuramente ha già fatto parlare di sé incitando il pubblico ad un sonoro “F*** Amazon” denunciando le condizioni precarie dei lavoratori del colosso di Bezos mentre suonava nel palco intitolato proprio ad Amazon stessa.
Tolti i messaggi sociali, la band dimostra tutto il talento sentito in studio anche nelle ore più calde della giornata, dal rullo compressore che è l’inizio di Hot Rotten Grass Smell alle bellissime Bath County e Chosen To Deserve. Sono una bomba e vanno supportati con tutti i mezzi possibili.
Mentre ci spostiamo verso il main stage per il prossimo concerto, inizio a percepire la brutta sensazione che mi porterò avanti per buona parte di questa giornata di avere già vissuto il picco di questo festival e di essere entrato nella parabola discendente, ma per ora lascio sfogare questo ronzio senza darci troppa corda.
Dicevamo, main stage tutto per Arlo Parks, cantante britannica con l’album My Soft Machine appena sfornato, talmente recente che non ho nemmeno fatto in tempo a digerirlo per avere un’opinione chiara in merito. Quello che già sapevo è che ci fosse qualcosa di molto buono in lei – oltre alla maglietta di un qualche tour degli Smashing Pumpkins – e lo ha dimostrato nel brevissimo tempo che le è stato dato a disposizione. Mancavano inspiegabilmente alcuni pezzi come Eugene e Cola, ma è bastato vederla scorrazzare felice in questo palco enorme per sentirmi ripagato del tempo che le ho dedicato.
Durante il concerto abbiamo anche giocato a contare quante volte inquadrassero alcuni miei amici appostati più avanti di me. Non ricordo se fossero state 7 o 8, ma è stato un bel passatempo.
Primo bivio della giornata: alcuni restano al main stage per vedere il set di Sevdaliza, mentre io preferisco defilarmi per guardare i My Morning Jacket al già deriso Amazon Music Stage. Non credo ci fosse una scelta vincente qui, perché fidandomi delle opinioni dei miei amici la produttrice israeliana ha messo su uno spettacolo che uno di loro ha definito – citando il sommo Franchino detto Er Criminale – “de laboratorio”, e nemmeno i My Morning Jacket hanno stuzzicato la mia fantasia, fatta eccezione dei bellissimi occhiali con le lenti a forma di cuore del cantante e una Love Love Love sentita in qualche remota soundtrack di FIFA.
L’atmosfera è talmente tiepida che in attesa del prossimo concerto abbiamo improvvisato guardando il punk dei Be Your Own Pet, che sono stati un simpatico sottofondo da avere per l’inizio del tramonto. Purtroppo, abbiamo deciso di andare poco prima che la cantante letteralmente vomitasse sul palco nelle ultime canzoni del set.
Ma noi eravamo già in attesa dei The Voidz, il side project di suo untume Julian Casablancas vestito per l’occasione da marshall delle piste aeroportuali con una remota memoria del concetto di doccia. Musicalmente suonano come i suoi The Strokes, con pezzi meno iconici e meno ispirati, ma sotto il palco sono tutti venuti per lui e Julian lo sa bene, quindi a un certo punto improvvisa una certa Cheeseburger Teriyaki (don’t marry him) dedicata esplicitamente alla star di serata di cui parleremo più avanti.
Ci si divide ancora tra chi non voleva perdersi un minuto di uno show che io vedrò per metà e chi come me aveva la testa solo per i The War On Drugs, che già non avevo potuto vedere per le norme sulla pandemia l’anno scorso quando sarebbero dovuti sbarcare a Milano. E la band di Philadelphia non delude: una delle esperienze di maggiore qualità del festival, canzoni che come loro solito duravano un’infinita (come piace a me) e una costante pelle d’oca a testimoniare la bontà della loro performance. L’unica macchia è che non è stata seguita la solita scaletta che includeva la mia canzone preferita Strangest Thing, ma ho recuperato ascoltando Harmonia’s Dream e Pain avvolte da un meraviglioso gioco di luci.
Però è ora di spostarci ancora, e dopo un abbraccio richiesto da un tizio inglese probabilmente alticcio ma sicuramente felice di quello che stava vedendo, riusciamo a prendere degli ottimi posti per Caroline Polachek, che purtroppo siamo stati gli unici a non trovarla immersa tra il pubblico nei giorni precedenti. La sensazione è che musicalmente parlando sia una star a tutti gli effetti, con una performance canora che sfiora il concetto di perfezione in pezzi come Blood & Butter e So Hot You’re Hurting My Feelings, specialmente dato il fatto che dopo questo concerto ha annunciato di avere avuto la laringite da più di una settimana, cosa che l’ha poi costretta a riposare per i due spettacoli successivi.
Dove secondo me c’è ancora tanto da migliorare è sulla performance estetica, perché il palco è ancora lo stesso da prima dell’uscita di Desire, I Want To Turn Into You – album che il buon Marco ha recensito qui e con cui condivido il giudizio – e per un’artista di questo calibro non regge il confronto con tanti altri cantanti considerabili di cartello che si sono esibiti nei giorni precedenti. Non è un giudizio nel complesso negativo, ma sento che manchi ancora qualcosa per convincermi al 100%.
Ormai avrete imparato a capire che il terzo giorno è stato tempestato da scelte su concerti di dubbio gusto e tra di noi si pone l’amletico dubbio tra Calvin Harris e i nostri Måneskin. È bastato guardare il dj di fama mondiale non toccare minimamente la console se non per mettere play per I Need Your Love per fare esclamare a me e il già citato Marco in unisono “che schifezza”. Davvero, ascoltare Calvin Harris dal vivo è come ascoltarlo al diciottesimo del vostro compagno di classe nella sala della parrocchia, con la differenza che qualcuno l’ha invitato a fare la bella statuina.
E così ecco che nella nostra testa echeggiava l’inno di Mameli andando sempre più vicini verso Damiano e la sua ciurmaglia, ma prima di arrivare lì ci imbattiamo nella fine dello spettacolo di Kelela, che dopo avere suonato benissimo Enough For Love ha chiesto quasi in ginocchio di potere fare un’ultima canzone alla troupe, e senza ricevere risposta prova lo stesso a cantare All the Way Down sotto una improbabile base di In The End dei Linkin Park. Purtroppo, si è dovuta fermare alle prime note suonate nel palco a fianco dei nostri italianissimi paladini.
I fan (giustamente) delusi di Kelela iniziano ad intonare dei “buuu” verso i Måneskin, scatenando una grottesca guerra tra palchi. E così il loro concerto inizia e con quello anche il cringe di sentire ZITTI E BUONI fuori da Sanremo, forse troppo per me in quel momento, tanto da spingermi a trovare qualcos’altro da ascoltare in giro.
Ci muoviamo un po’ e troviamo casa al live dei Liturgy, band metal avanguardista che è quanto di più lontano possa esserci dal mio gusto musicale, ma almeno mi ha permesso di trovare un’alternativa alla proposta eccessivamente pop del festival in quel momento.
E coi Liturgy ci possiamo un attimo prendere una pausa per capire in modo concreto quanto di vero ci fosse nelle mie paure espresse a inizio giornata, perché il terzo giorno è stato fino a quel momento il peggiore dei tre per offerta musicale, con show di qualità altalenante e spesso dimenticabili, alcuni dei quali sono stati anche in grado di deludermi. Sale un po’ lo sconforto, ma poi ripenso a quanto di bello avessi visto appena un giorno prima e alle bellissime memorie che stavo comunque costruendo quel giorno. Quindi decido di alzarmi e rendere gli ultimi concerti di questa giornata indimenticabili.
Troverete domani la seconda parte di un articolo altrimenti troppo lungo e complesso, nel frattempo vi lascio come di consueto la playlist con i brani degli artisti qua citati.