La prossima tappa ci porta dai Death Grips, band industrial hip hop osannata negli ambienti internettiani e con l’oggettivo merito di essere stato uno dei collettivi più capaci di incidere e cambiare il suono del decennio appena passato. Ci mettiamo tra il pubblico con il concerto dei Måneskin ancora in essere e con MC Ride – il frontman della band – intento a provare la “tranquillissima” Guillotine in sound check andando sopra ai pezzi suonati nell’altro palco.
I più maliziosi penseranno che sia stato fatto apposta, ciò che è sicuro è che il pubblico ha interpretato questo messaggio alla lettera, mostrando all’incolpevole e ormai martire palco Amazon il dito medio e intonando versi animaleschi. E il concerto non è nemmeno iniziato.
Il concerto poi inizia davvero, senza illuminazione se non quella riflessa dal rosso sangue di cui era tinto lo schermo dietro il palco. La psicosi si protrae per me e i miei compagni di merende per una buona mezz’ora, con il vanto di avere sentito dal vivo pezzi come Get Got e No Love.
Dall’altra parte del festival, il main stage è colmo di persone per la beniamina di casa nonché uno dei nomi più importanti nel mondo musicale latino e, come detto prima, oggetto di una dedica di Julian Casablancas (il riconoscimento che ritengo più onorevole): Rosalìa. Per farvi capire la portata dell’evento, rispetto alla reunion dei Blur al primo giorno posso stimare più del doppio degli spettatori.
E qui ho qualcosa da dire, perché ho cercato nei giorni successivi opinioni di esperti che erano sul posto e ho letto quasi solo parole al miele su di lei. Ora, complice sicuramente il fatto che la stessi vedendo da una distanza quasi proibitiva, ho avuto modo di confermare dei dubbi che mi si erano posti guardando gli infiniti e inevitabili reel e TikTok del concerto nei mesi precedenti.
Quello che voglio andare ad analizzare è il cameraman posto quasi costantemente sopra il palco alla pari con Rosalìa e i suoi ballerini, talvolta anche oscurando la stessa popstar dalla visione del pubblico per preferire una migliore resa dai maxischermi installati ai lati del palco, e guardando proprio quegli schermi l’impressione è quella di vedere un halftime show del Superbowl preparato mesi prima, non un concerto dal vivo.
Sia chiaro: non è tanto il cameraman in sè ad essere un problema, ma molto di più cosa rappresenta ai fini dello show. Perché qua si cade sul campo del soggettivo, ma quello che amo dei concerti è la componente di spontaneità, della possibilità di vedere un evento che possa essere esclusivo per il mio spettacolo al fine di creare una sorta di rapporto di complicità con l’artista, quel “hey, ero lì sotto il palco quando è successo x”. Questo esagerare con le coreografie misto a prediligere una fruizione passiva dello spettacolo potrebbe alla lunga distruggere l’anima che rende così speciale un concerto?
Ovviamente non parlo di concerti di un certo tipo di band che probabilmente continueranno a portare i loro strumenti sul palco e offriranno sempre uno spettacolo di tutt’altro tipo, ma è davvero interessante questa barriera di cartone che viene posta tra pubblico e performer?
E lo dice uno che considera il suo ultimo album Motomami un capolavoro della musica mainstream, ma da uno spettacolo fatto davanti al pubblico della sua città natale mi aspettavo ben di più di una carrellata di canzoni tagliate al fine di potere comprimere il concerto per farlo stare in appena 75 minuti.
Un po’ con l’amaro in bocca, mi porto fuori il prima possibile dalla massa informe di persone che stava uscendo per l’ultima volta dal main stage per trovare i soliti (bellissimi) gradini del Cupra e riprendere qualche energia per gli ultimi due magnifici concerti di giornata.
Il primo è stato quello di JPEGMAFIA intorno alle 4 del mattino, ma dall’energia che ha portato sul palco sembrava si fosse appena svegliato con una dose eccessiva di caffeina in corpo, per non dire altro. Reduce da un clamoroso SCARING THE H*** in collaborazione con il rapper Danny Brown uscito a febbraio, Peggy non molla un centimetro e si esibisce tra pezzi del suo repertorio, featuring passati con Denzel Curry e i BROCKHAMPTON e una divertentissima cover in autotune di Call Me Maybe di Carly Rae Jepsen. Un concerto fatto come si deve con un performer stellare.
Sono le 5.30 del mattino e ci dirigiamo verso gli Overmono: un duo uk garage fresco della release del primo album Good Lies con la label XL Recordings, famosa per avere lanciato gli xx e avere pubblicato alcuni album dei Radiohead. La stanchezza c’era, ma era sovrastata dalla sensazione di stare chiudendo qualcosa di magico, impreziosito dall’alba che iniziava a comparire dall’orizzonte del mare. Di quel concerto ricordo solo di avere chiuso gli occhi per metà del tempo e ripercorso passo dopo passo tutto quello che vi ho raccontato finora. Forse ancora troppo da processare, ma già con la coscienza di avere visto qualcosa di assurdo.
La giornata finisce, questa volta con i saluti si fanno le 8 del mattino e dopo esserci convinti a vicenda a ritornare anche l’anno prossimo è ora di dormire, perché manca ancora la giornata conclusiva al RAZZMATAZZ.
Giornata che inizia alle 5 del pomeriggio con un’apericena in centro a Barcellona per riprendere qualche energia e per salutarci prima dell’ultimo marasma. E così, con un po’ di tapas e sangria in corpo ci dirigiamo verso i Joy Anonymous, un duo di dj inglesi che hanno aperto la serata a suon di beat festaioli ed energie positive. Un’ora che sembra volare, specialmente per qualcuno di noi che ha – comprensibilmente – approfittato per recuperare un po’ di sonno durante il loro set.
Il secondo nome rendeva invece più difficile il sonno, perché Yves Tumor ha portato i chitarroni in uno show che però ho fatica a considerare perfettamente riuscito. Musicalmente parlando, tolto qualche problema riguardo la sua voce in equalizzazione, da parte della band non ci sono stati problemi vistosi, ma l’ho trovato uno show eccessivamente eccentrico e a tratti confusionario.
L’ultima parte del concerto è stata caratterizzata da Yves che dava le spalle al pubblico e si comportava come se nulla fosse. L’avrei trovata anche un’idea originale se non fosse durata per 10 minuti buoni. Almeno è stata una buona occasione per ascoltare dal vivo Gospel For A New Century ed Echolalia.
Finisce il concerto e dopo una strana attesa di 30 minuti, visti i ritmi serrati a cui eravamo stati abituati al Forum, arriva sul palco Loyle Carner: artista che i più attenti ricorderanno che l’avessi già visto al primo giorno, con la differenza che nel primo caso ero seduto abbastanza distante dal palco in condizioni al limite del pietoso, mentre qui invece ero nelle primissime file del parterre in un posto centrale. L’esperienza è stata ovviamente diversa – nonostante la scaletta fosse molto simile – ma cantare praticamente insieme a lui le varie Angel, Ottolenghi e Loose Ends dopo avere consumato il suo vinile a casa è stato uno dei momenti più belli di questo tour de force.
Tutto corre a velocità supersonica (o alla Speed Of Plight, per citare Loyle Carner) e ci ritroviamo all’ultimo concerto. Il trucco è non pensare che lo sia, non ora almeno. Quindi ecco entrare i Jockstrap, un duo londinese composto da Georgia Ellery alla voce (violinista dei Black Country, New Road) e da Taylor Skye ai sintetizzatori.
Avevo già avuto la fortuna di vederli in uno stato embrionale alla scorsa edizione del Primavera in un locale piccolissimo, nel frattempo hanno rilasciato l’album di debutto I Love You Jennifer B e molti esperti li definiscono la next big thing del pop. Bastano cinque minuti sotto il palco per capire il perché, tra synth fuori di testa e una presenza scenica della Ellery che urla talento da ogni dove.
Passano le varie Greatest Hits, Concrete Over Water e la folle 50/50 e iniziamo a renderci conto che la fine è purtroppo arrivata. Georgia e Taylor ci salutano e noi salutiamo il festival, tutti in una fase differente del processo del lutto. Io ero in un mix tra l’accettazione ed il rifiuto: felice di avere vissuto tutto questo ma in qualche modo convinto che non fosse finito un bel niente. Qualunque fosse la verità, non l’avrei scambiata con l’idea che avevo al momento perché in qualche modo non riuscivo ad essere triste.
Non voglio fare voli pindarici, ma la mattina dopo mi sono messo a pensare a questa frase di Umberto Eco che avevo sentito da qualche parte anni fa:
Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria! Chi legge avrà vissuto 5000 anni
E in un certo senso sento di reinterpretarla e farla mia con tutto quello che ho vissuto. Perché alcuni non saranno certamente stati dei libri aperti, ma ogni esperienza, ogni persona che ho conosciuto sopra o sotto il palco è riuscita a darmi una nuova dimensione del mondo che mi circonda. Ho vissuto dentro decine di culture, ascoltato la voce e i pensieri di persone con i background più assurdi portati più o meno volontariamente sul palco, ho potuto vedere con i miei occhi la felicità di chi un paio di anni prima a malapena riempiva un pub e oggi aveva migliaia di persone a urlare le loro canzoni, alcuni per la prima volta.
Forse non sarà come leggere un libro, ma sicuramente sento di avere vissuto moltissime vite nel giro di pochissimo tempo, e questa è la sensazione che cerco quando vado a vedere un concerto, per sentirmi vivo.
Per un’ultima volta, ecco a voi la playlist Spotify dedicata all’articolo che avete appena finito di leggere. Grazie a tutti per essere arrivati fino a qua, non lo do per scontato.