Buongiorno a tutti. Sono le 14.30 del 2 giugno, mi sono appena svegliato e miracolosamente non sento più la febbre. Il piano giornaliero prevedeva il primo concerto alle 17.00, quindi letteralmente due ore dopo ci saremmo dovuti trovare sotto il palco a vedere i The Beths come primo concerto di giornata. Oppure potevamo far valere il nostro lato pigro e assonnato e prendercela con calma, arrivando un’ora dopo. Non vi dico nemmeno quanto mi dispiaccia non potervi raccontare quel concerto, anche se fonti interne mi confermano della loro bontà dal vivo.
Arriviamo poi in tempo per metterci alle prime file per assistere alla bellissima performance di Julia Jacklin, cantante indie folk australiana vestita di tutto punto per uno jodel. Nonostante alle prime ore il pubblico tendesse ad essere un po’ timido e poco responsivo, a canzoni come Don’t Know How To Keep Loving You cantate così bene non si poteva di certo rimanere indifferenti.
Un inizio che ha impostato il per i prossimi due concerti che terranno le sensazioni nel precario equilibrio tra qualcosa di carino e malinconico. Primo tra questi quello di un’altra Julia, in questo caso Julia Holter all’Auditori, un teatro coperto situato all’ingresso del Forum dove vengono suonati i concerti più d’essai, dotato di un impianto sonoro capace di donare la migliore esperienza possibile di tutto il festival.
C’è poco da dire, il concerto della Holter è stato fenomenale. Lo si era capito dalle prime note di Sea Calls Me Home e ha fatto in modo che non potessimo cambiare idea, nemmeno per un attimo. Non so nemmeno come potervi trasmettere la pelle d’oca avuta in un climax vocale di inedita qualità in Betsy On The Roof, è una sensazione che terrò gelosamente dentro di me.
Tralasciando un signore dietro la mia poltrona che si è clamorosamente addormentato con tanto di poderosa russata nel silenzio tra la fine di una canzone e l’applauso, il pubblico era visibilmente estasiato e lo ha reso chiaro con una standing ovation alla fine del concerto che ha commosso i teneri cuori della meravigliosa Julia Holter e della eccezionale band che la accompagnava.
Completamente sciolto da quello che ho visto e sentito all’Auditori, ci dirigiamo verso il Cupra – il palco con i posti a sedere raccontato nello scorso episodio – per i The Moldy Peaches, band newyorkese con un solo album all’attivo pubblicato nel 2001 e ai primissimi concerti successivi all’annuncio della reunion dopo lo scioglimento nel 2004.
Ammetto che non so nemmeno da dove iniziare con loro. Tutta la band era vestita con costumi bizzarri, il pubblico aspettava solo i due volti iconici Adam Green e Kimya Dawson e dopo qualche secondo eccoli arrivare, con quest’ultima obbligata sul palco in una carrozzina elettrica truccata per sembrare uscita da Mario Kart e con un buffissimo cappello che ricordava la testa di Toad, sempre dal franchise dell’idraulico italiano più famoso al mondo. Non sapevo niente della sua condizione e, colto di sorpresa, mi sono lasciato andare in qualche lacrima di commozione.
Il concerto è stato tenerissimo, da tagliare con un grissino, con pezzi come Lucky Number Nine (hurray, ndr) e Anyone Else But You che porterò sempre con me d’ora in poi. Era chiaro che i primi ad essere emozionati fossero loro, dal loro volto non uscivano altro che sorrisi a trentadue denti. Sul finale decidono addirittura di regalarci un abbraccio collettivo, mimato prima da loro e poi a specchio da tutti noi. Ho pianto ancora, tanto.
There’s no such thing as Moldy Peaches @mrskimyadawson @AverageCabbage pic.twitter.com/eWBcVl1eoO
— Primavera Sound (@Primavera_Sound) June 2, 2023
Col cuore che ha fatto il pieno di amore mi dirigo poi per una brevissima tappa dagli Alvvays, collettivo canadese estremamente talentuoso, nonché band preferita di Keanu Reeves, stando a quanto dichiarato in una sua recente intervista. E il buon Keanu ha ottimi gusti, perché la band e soprattutto la lead singer Molly Rankin dal vivo sono meravigliosi, ma il tempo a disposizione per loro è stato poco per non perdermi dei buoni posti per quello che verrà dopo. Quindi dopo una bellissima In Undertow era già ora di salutarli.
Direzione main stage, dove ormai stavano finendo il loro concerto i Depeche Mode, riempiti di un pubblico un po’ più attempato della media del festival, ma ugualmente energico. Nonostante fosse solo la fine, ho potuto ascoltare i pezzoni come Enjoy The Silence, Just Can’t Get Enough e Personal Jesus da una posizione molto suggestiva, con Dave Gahan che sembrava fluttuare sopra le migliaia di fan che accerchiavano la passerella.
Credo sia opportuno specificare che i due palchi principali del festival – l’Estrella Damm e il Santander – fossero uno a fianco all’altro, e questo agevolava la strategia di rimanere in questa enorme area per più concerti di fila, magari sacrificandone uno vedendolo di lato per ottenere dei posti privilegiati al live successivo.
Ed è proprio questo il “sacrificio” che abbiamo fatto durante lo spettacolo di Kendrick Lamar, che non ho paura a definire il più grande rapper in vita e una mia piccola divinità. Ed eccolo lì, in tutto il suo splendore con le strumentali di The Heart Part 5 in sottofondo che gli fanno da apertura. È stato uno show sensazionale, capace di accontentare sia il pubblico più casuale con i grandi pezzi come HUMBLE., Alright e Money Trees, ma anche di regalare qualche perla più rara come A.D.H.D. da Section.80, il suo album d’esordio.
Show culminato con l’arrivo di suo cugino Baby Keem sul palco a cantare insieme al pubblico ormai completamente catturato vent e family ties direttamente dall’album d’esordio di Keem.
Il sacrificio fatto per il concerto di Kendrick e le gomitate sullo sterno prese da una goffa ragazza spagnola nel confuso intento di ballare canzoni non ballabili durante il concerto appena finito è stato ripagato dalla posizione praticamente perfetta per il concerto di Fred Again.., producer londinese la cui fama è in esponenziale crescita da un anno a questa parte, diventato tra le tante cose famoso per il trio formatosi tra lui, Skrillex e Four Tet.
Il suo era il set che attendevo di più in tutto il festival e sono felice di dirvi che le mie attese non siano solo state ripagate, ma in qualche modo anche superate. Tutto parte con una lentissima e strappalacrime introduzione sulle note di Kyle (i found you), con un pubblico già caldissimo dalle prime note e con Fred stesso salito sul palco con il suo solito sorriso contagioso. Passa poi un messaggio carinissimo scritto da lui che tra le altre cose recitava:
Thank you so much for being here. About 3 years ago I started making a sort of musical diary from things in my life, so I called it actual life. And now it’s the joy of my life to get to share it wit you guys
Per poi fare partire un pezzone dopo l’altro: Jungle, Baby Again.., Danielle (smile on my face) e persino un travolgente mash up tra Chanel di Frank Ocean e A New Error dei Moderat. Avere Fred Again.. così vicino a me da potergli vedere le goccioline di sudore colpire il pad con cui stava facendo l’ennesimo finger drumming è un piacere per gli occhi e per lo spirito.
Io e tutto il pubblico siamo in visibilio, Fred è chiaramente esausto ma è talmente esaltato dalla risposta del pubblico che ormai ha deciso di mettere la sua salute da parte per un momento.
È ora dell’ultima canzone: inizia ed è Delilah (pull me out of this), mancava davvero solo quella. Arriva il momento del drop, siamo tutti carichi e come nei più scontati script hollywoodiani l’intero impianto del main stage smette di funzionare esattamente nel momento dell’apice del climax. Fred è incredulo, ma noi – forse anche convinti che fosse una gag – ce ne infischiamo e decidiamo di cantarla in unisono, in un gesto di spontaneità che lo lascia senza parole.
Prova a ringraziarci, ma giustamente nemmeno il microfono funziona, al che – dopo averci incitato a continuare per un paio di minuti – è obbligato ad uscire dal palco e aspettare che qualcuno risolvesse il problema. Dieci minuti dopo sia lui che il suo fidato amico Tony (con un’improbabile maglietta del Barcellona addosso) tornano per darci il meritatissimo drop, salutarci a dovere e concludere quella che non ho problemi a definire come l’esperienza musicale più soddisfacente e piena della mia vita.
Neanche il tempo di prendere un paio di respiri e bere dell’acqua gentilmente offerta dalle security dall’altra parte delle transenne ed era già il momento di un altro membro del trio prima citato, nonché presenza fissa dei miei pensieri da ragazzino delle medie che giocava a Call Of Duty sognando dosi esagerate di Mountain Dew: Skrillex.
Ed è stato esattamente come ve lo potreste immaginare: una tamarrata incredibile, un tuffo nel passato con migliaia di persone intorno a me che vivevano le mie stesse sensazioni. Tutto idilliaco, se non fosse stato per un incendio durante la prima canzone ai rivestimenti dei faretti in cima al palco, che cadevano ancora incandescenti e pericolosamente vicino alle prime file appostate davanti allo stage. Skrillex richiama alla calma esclamando un simpatico “tranquilo!” e per fortuna non si riportano feriti nell’accaduto, ma l’area va messa in sicurezza e il concerto ritarda di 45 minuti per questo.
Se desata incendio en el escenario durante la presentación de #Skrillex en el Primavera Sound.https://t.co/DQgJpoebbK#beat1009fm #beatdigital #BeatNews #PrimaveraSound2023 #Barcelona #electronicmusic pic.twitter.com/scqPh8uvjO
— BEAT 100.9 FM (@BEATOFICIAL) June 8, 2023
Dopo lo spettacolo pirotecnico di Skrillex si sono fatte le 4 del mattino ed era ora del miglior concerto da ascoltare a cavallo tra la notte e l’alba. Channel Tres era lì ad aspettarci con due ballerini e i suoi immancabili occhiali da sole. Era impossibile non ballare ascoltando le sue All My Friends, 6am (comico sentirla allo scoccare delle 5am) e Topdown.
Dopo Channel Tres avevamo la possibilità di ascoltare anche il concerto di Daphni, aka Caribou, ma il pensiero della comodità provata lanciandosi a letto il giorno prima ha fatto da padrone, complice anche il fatto che non sarebbe stata la mia prima esperienza con il produttore canadese.
E così si chiude un’altra giornata al sorgere del sole, aperta la porta di casa non c’era già bisogno di accendere le luci e dopo un’intensa stesura di una tier list di biscotti stilata da me e i miei compagni di viaggio (le macine dominano su tutto, sappiatelo) era veramente ora di dormire, anche se non ho chiuso occhio per più di un’ora per ripensare a quanto di bello mi abbia regalato questa giornata.
Come sempre, ecco a voi l’immancabile playlist Spotify che raccoglie i brani più memorabili di questa fantastica giornata