I migliori album del 2024 secondo noi

Avete visto i miei 50 dischi preferiti nel corso dell’ultimo mese. Ora è tempo di dare voce anche al resto della redazione. Trovo la fine di ogni anno un bel momento per potere tirare le somme di ciò che ci è piaciuto di più artisticamente parlando e non, e quale cosa migliore se non condividere questo momento con chi nel corso degli ultimi due anni mi ha aiutato a portare avanti questo progetto? Ognuno di noi si è speso a parlare del disco che ritenevano più meritevole di discussione non limitandosi a fornire un giudizio oggettivo, ma arricchendolo di una motivazione personale. Il risultato uscito fuori secondo me è molto interessante, perché ha rivelato diversi approcci di risposta alla stessa domanda. Un’ultima cosa: l’ordine dei dischi è puramente alfabetico.

Beyoncé - COWBOY CARTER

Stefano Cazzaro

In COWBOY CARTER, Beyoncé esplora le radici della musica americana intrecciando country, folk, pop e R&B con straordinaria organicità. Con brani come 16 CARRIAGES, che richiama esplicitamente la tradizione americana, e PROTECTOR, dove la tradizione evolve verso l’R&B contemporaneo, l’artista dimostra una versatilità senza pari. Spiccano anche II MOST WANTED, con una Miley Cyrus in grande spolvero, e DAUGHTER, riflessione sulla genitorialità impreziosita dall’interpretazione di Caro mio ben, opera del Settecento di Tommaso Giordani. La produzione è uno dei principali punti di forza: il bilanciamento sonoro valorizza tanto le chitarre acustiche quanto i beat di produttori come Swizz Beatz e d.a. got that dope. Nonostante qualche episodio meno originale – si pensi ad ALLIIGATOR TEARS o RIIVERDANCE – Beyoncé riesce a fondere tradizione e contemporaneità, firmando un album che rappresenta una delle vette più alte della sua carriera.

Perché Beyoncé? Sgomberiamo subito il campo da fraintendimenti: il miglior album del 2024 è, senza dubbio, brat di Charli XCX. Tuttavia si è parlato così tanto di quel disco che aggiungere qualcosa di nuovo sembra impossibile. Non mi resta che volgere lo sguardo alle posizioni successive della mia classifica, dove si contendono il podio Wall of Eyes dei The Smile e COWBOY CARTER di Beyoncé. Alla fine rinuncio alle classificazioni rigide e scelgo COWBOY CARTER, forse influenzato dal fatto che stanotte Beyoncé ha brillato durante l’halftime show della NFL. Avvio l’album su Spotify e, quando Linda Martell in SPAGHETTII afferma “Genres are a funny little concept, aren’t they?”, penso che sì, i generi sono un concetto curioso, ma rifletto anche sul fatto che, senza di essi, non potremmo ammirare quanto Beyoncé sia straordinaria nel reinterpretarli, farli suoi, domarli proprio come fa con il cavallo bianco che troneggia sulla copertina di questo ottimo disco.

Billie Eilish - HIT ME HARD AND SOFT

Francesca Muscio

Con il terzo album della sua carriera, Billie Eilish si conferma imperterrita a non avere nulla a che fare con il panorama musicale e riesce finalmente a non sentirsi più in dovere di dare spiegazioni; niente più realtà distanti ed evocative, niente più mostri nascosti sotto al letto. Ora può essere nient’altro che Billie Eilish, reale e cruda. L’album è infatti un tormentato viaggio creativo che fa esattamente ciò che il titolo suggerisce: colpisce duramente e dolcemente a livello di testi e di musiche. Il tutto avviene con una profonda crescita musicale e stilistica, dirompente ma, al tempo stesso, delicatamente intessuta. Si scopre una Billie più “adulta”, più matura, emerge uno sguardo più emancipato con composizioni molto più articolate e una struttura delle canzoni totalmente stravolta, una maggiore espressività vocale e il passaggio a sonorità più acustiche ed eclettiche. Hit Me Hard and Soft è un viaggio nell’io interiore di Billie, nel suo mondo caleidoscopico di emozioni; è un’unica lunga traccia da ascoltare tutta di fila, prodotta anche grazie al lavoro del fratello Finneas, fedele collaboratore da sempre che riesce a tenere insieme tutti i lati del talento e della sensibilità artistica della popstar.

Perché Billie Eilish?  L’ho amato perché è un disco autentico, ribelle, spiazzante, a tratti inquietante. Mi ha trascinato nel “Blue” di un racconto onirico, da ascoltare con cura, tutto d’un fiato. Come quando si trattiene l’ossigeno necessario per tuffarsi e riemergere poi a respirare, con gli occhi lucidi della consapevolezza dei propri abissi. Ogni volta che l’ascolto, mi ricorda l’importanza di rimanere sempre stessi.

Fionn Regan - O AVALANCHE

Antonio Genovese

Fionn Regan torna dopo cinque anni di silenzio, con un lavoro in piena continuità col suo percorso musicale. Le atmosfere sono sempre più rarefatte, il delicato fingerpicking della chitarra acustica si stende su un tappeto di riverberi costruiti sull’eco della sua voce, pura come sempre. Attraverso questo scenario di suoni sfumati, Regan ci conduce in un limbo ai confini del tempo e dello spazio. Un non-luogo in cui l’irlandese proietta brevi istantanee di vita, fugaci visioni di scene passate o forse mai avvenute. Fionn cerca di riavvolgere il nastro, tornare il ragazzino ventenne di The End of History, stupito del mondo che gli gira intorno, ma nelle pieghe emergono, inevitabili, dolore e rimpianto. Regan finisce ad aggirarsi come un fantasma nel mondo che ha ricreato, rendendo O AVALANCHE un manifesto poetico della malinconia.

Perché Fionn Regan? Forse l’album di Fionn Regan non sarà il migliore del 2024, né il mio preferito, ma gli artisti irlandesi (e non) da scegliere erano stati già presi – dico a voi Fontaines DC (e Nick Cave). Ho scelto O AVALANCHE come premio alla carriera per un artista che non è mai riuscito a varcare davvero i confini britannici, pur avendo la capacità di risvegliare la sensibilità di chi lo ascolta grazie a una scrittura raffinata e alla delicatezza delle melodie. Quest’ album è stato anche un viaggio che mi ha permesso di tornare a quella parte di Irlanda e di musica che mi ero un po’ lasciato alle spalle negli ultimi anni, un folk semplice e incisivo; un ritorno al silenzio mentre tutt’ attorno il volume continua ad alzarsi – un grazie speciale anche ad Adrianne Lenker e al suo Bright Future per questo.

Cindy Lee - Diamond Jubilee

Luca Basso

In questo caso Luca si è talmente preso bene a parlare di Diamond Jubilee che lo ha direttamente recensito nel processo di scrivere il suo trafiletto. Non potevo fare altro che pubblicarglielo in simultanea a questo articolo. Quindi vi lascio il link per leggerlo, lo trovate qua.

The Last Dinner Party - Prelude To Ecstasy

Marco Bisceglie

Il 2024 ci ha regalato un’infinità di album straordinari, rendendo difficile sceglierne uno sopra tutti. Alla fine, però, ho seguito il cuore e scelto quello con cui ho legato più profondamente a livello emotivo. Ripensandoci, tutto è iniziato meno di un anno fa, quando ascoltai per la prima volta il loro singolo di debutto, Nothing Matters, senza immaginare la portata dell’esplosione che sarebbe seguita. Poi è arrivato Prelude to Ecstasy, un album che fin dal primo ascolto mi ha fatto capire di trovarmi davanti a qualcosa di speciale, qualcosa che andava oltre il semplice apprezzamento di un bel disco.

Perché le The Last Dinner Party? È un album che ha fatto breccia nel mio cuore e che è cresciuto con me nel tempo. Sarà stato il loro approccio unico, che fonde teatro e letteratura antica? O la voce di Abigail Morris, capace di essere al contempo delicata e tagliente? O forse tutto questo insieme? Quello che è certo è che, anche dopo nove mesi, non posso fare a meno di emozionarmi ascoltando On Your Side, di gasarmi con Burn Alive o di sentirmi in una fredda serata di Febbraio al Santeria Toscana di Milano leggendo: “I have my sentence now, at last I know just how you felt”.

Vampire Weekend - Only God Was Above Us

Matteo Russo

In un periodo colmo di tensioni, insicurezze e conflitti, i Vampire Weekend nel loro ultimo disco decidono di portarci la loro visione del mondo senza censurarci niente di tutto questo, ma anzi mostrandola in chiave speranzosa e straordinariamente delicata. Musicalmente poi è pura festa: ascoltarlo mi da sempre la sensazione di entrare sul set di Big, quel vecchio film di Tom Hanks dove suonava un pianoforte gigante con i piedi. Non aspettatevi un suono troppo diverso dai primi dischi, quanto più una versione raffinata e matura di quanto abbiamo già sentito da loro.

Perché i Vampire Weekend? Ho deciso di considerarlo il mio disco dell’anno perché sembra raccontare di pezzo in pezzo le difficoltà insieme momenti più felici che ho vissuto in questo 2024. Non è una scelta dovuta alla comunque indubbia qualità del prodotto, quanto più dettata da come i testi e le scelte musicali di Ezra Koenig e compagnia suonino come una pacca sulla spalla data da un fratello maggiore. Ascoltavo Only God Was Above Us tra le vie di Padova che ormai sento come un luogo del passato, e ritornarci mi riporta quasi a sentire il brusio delle persone che passava dalla cancellazione del rumore delle mie cuffie e a volermi districare tra di loro per muovermi tra i portici ricolmi di negozi, tutto avvolto da una sensazione di pace e dolce abbandono.

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