Se si percorre la Strada Statale 53 (detta la “Postumia”) che collega Vicenza con Portogruaro (entrambe in Veneto), pochi metri dopo aver oltrepassato il confine tra la provincia di Vicenza e Padova, in direzione di Torri di Quartesolo, è possibile vedere sulla propria destra la sede di San Pietro in Gù di Veronesi, noto produttore di mangimi per animali. Gli otto silos più esterni avevano ognuno una delle otto lettere che compongo il nome Veronesi, a caratteri cubatili e in colore blu. Dalla casa dei miei genitori, a Bolzano Vicentino, erano facilmente visibili una volta e, vederli anche oggi riportano la mia mente alla mia infanzia, al mio passato.
Una simile reazione l’ho avuta quando ho ammirato, per la prima volta, la copertina di Diamond Jubilee: anche qui abbiamo i silos Alberta Terminals, costruiti nel 1931 a Lethbridge (Canada) e tutt’oggi utilizzati da Canadian Pacific, ma l’atmosfera che si respira è quella tipica di una grande città operaia degli anni Sessanta. Si tratta quindi di un periodo che non conosco, ma che con l’ascolto delle trentadue tracce – sì, avete letto bene – riesco a immedesimarmi.
C’è un commento nel video dell’album completo YouTube (unico spazio, insieme a Bandcamp, dove potete ascoltarlo in streaming) in grado di sintetizzare questa sensazione: «Sounds like nothing I’ve ever heard, and everything I’ve ever loved» («Non suona nulla di ciò che mai ho ascoltato e tutto ciò che ho sempre amato», più o meno in italiano).
Cindy Lee è l’alter-ego drag queen di Patrick Flegel, ex membro dei Women, gruppo fondato insieme al fratello Matthew, abbandonato a causa di una rissa con il resto della band dopo un concerto – tra l’altro, Matthew e il batterista Michael Wallace andranno a formare i Viet Cong, che cambieranno poi nome in Preoccupations.
Il progetto combina il cross dressing, il falsetto di Patrick, delle sonorità lo-fi e un romanticismo anticonformista. Non è un caso se Diamond Jubilee è, nonostante l’attenzione ricevuta quest’anno, lontano dalle classifiche, dalle piattaforme di musica e dal successo mainstream. Lo conferma anche la sua durata di due ore e l’assenza di brani di punta: la sua fruizione deve cominciare dall’inizio e terminare alla fine, senza pause e senza veri highlights.
Quello che fa Diamond Jubilee è di restituire l’indie rock all’underground, con elementi psichedelici, genuini, affascinanti e sognanti. È anche un passo avanti rispetto a What’s Tonight To Eternity a livello di strutture melodiche, di scrittura e di soluzioni. Insomma, è un piccolo capolavoro che non segue le logiche dei tempi attuali, dove la musica è sempre più usa e getta anche ai livelli con numeri più contenuti.
Diamond Jubilee è una compilation di diversi generi, influenze e decenni: a tratti ti fa ballare, in altri ti culla e così via. Sicuramente non è una celebrazione del passato, come scrive Federico Sardo in Rivista Studio: «a differenza della calligraficità anastatica di un Random Access Memories (dei Daft Punk, ndr), prende tutto quel passato ma in termini di struttura e produzione fa cose possibili solo nell’era digitale, raccontandoci tutta quella musica come qualcosa di decisamente trapassato».
Se solo oggi, a dicembre, ho deciso di raccontare a mio modo Diamond Jubilee è colpa anche di Matteo Russo, aka il boss di bva*. Qualche giorno fa, quando mi ha proposto di scrivere qualche riga sul mio album preferito del 2024, ho analizzato i miei ascolti durante l’anno e ho constatato che quasi nessuno mi ha sorpreso quanto questo disco.
Non potevo spendere poche parole per Diamond Jubilee e, proprio per questo, sono arrivato a scrivere fino a qui. Perché Diamond Jubilee è più di un semplice album, al contrario. È un lungo appassionante viaggio tra passato, presente e futuro, verso un luogo dove non siamo mai stati ma che abbiamo già visto.
Le foto sono di Madeline Cohen, pubblicate originariamente qui.