“Il gabbiano Jonathan Livingston non è come tutti gli altri. Là dove i suoi simili, schiavi di becco e di pancia, si limitano a composti viaggetti per procurarsi il cibo inseguendo le barche da pesca, lui intuisce nel volo una bellezza e un valore assoluti. Tanto basta per meritargli il marchio dell’infamia e l’allontanamento dallo stormo Buonappetito. Solo, audace, sempre più libero, Jonathan il Reietto scopre l’ebbrezza del volo acrobatico e varca i confini di altri mondi, altre dimensioni abitate da gabbiani solitari simili a lui nella spasmodica fame e sete di perfezione.”
Questa è la prefazione della bellissima fiaba Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach e l’album di cui parleremo oggi ha un fortissimo filo conduttore con questo libro, tanto da renderlo una fondamentale chiave di lettura.
Ma andiamo con calma. Permettetemi di gustarmi questa recensione prendendo tutto a piccoli passi, non prima di averne fatto uno grande indietro per introdurvi la figura di Sampha: nato e cresciuto a Londra da una famiglia originaria della Sierra Leone, prende confidenza con il mondo della musica fin dall’età di tre anni suonando accanto a sua madre il pianoforte, entrambe figure chiave nella sua carriera su cui torneremo dopo.
Nel 2009 inizia uno stage in Young Turks (ora conosciuta solo come Young), l’etichetta discografica per cui tutt’ora lavora. Due anni dopo comparirà in quattro tracce del disco d’esordio di SBTRKT, ma era solo un punto di partenza: nel corso degli anni lo troveremo anche nelle discografie di Drake, Kendrick Lamar, Solange, Frank Ocean, Kanye West e Travis Scott.
Verrebbe facile pensare che un artista capace di collaborare – e conseguentemente ricevere la stima – con così tanti artisti di questo calibro possa godere della loro stessa fama, ma a Sampha non sembra importare la notorietà, non sembra adattarsi ai canoni che il mondo della discografia ormai impone al fine di ottenerla ad ogni costo, con dischi programmati ogni due o al massimo tre anni.
Per lui questo non sembra valere, perché nonostante già molte delle collaborazioni citate fossero già avvenute, non c’era alcuna traccia di musica da solista, se non per un EP intitolato Duel nel 2013 contenente una già magnifica Without. Ed ecco che nel 2017 – 6 anni dopo le prime collaborazioni con SBTRKT – abbiamo tra le mani Process, il suo album di debutto.
Ed è un disco non facile per lui, perché il tema centrale è il dolore causato dalla recente scomparsa di sua madre, alla quale dedica la tanto bella quanto struggente No One Knows Me (Like The Piano) che, con un coraggio invidiabile, ha deciso di suonare al suo funerale con il pianoforte a lui tanto caro. Questa non è la recensione di Process, ma per conoscere al meglio il personaggio vi esorto a recuperare – qualora non l’aveste già fatto – anche Take Me Inside e soprattutto l’energica Blood On Me, impreziosita da un’influenza nella stesura della traccia da parte del già citato Frank Ocean, che lo ha spronato a non preoccuparsi di quello che pensasse la gente.
Con Process Sampha riceve un ampio consenso da pubblico e critica, tanto da permettergli di vincere il Mercury Prize di quell’anno, un prestigiosissimo riconoscimento intitolato al frontman dei Queen che premia il migliore album britannico secondo una giuria di addetti ai lavori.
Gli anni passano da quel 2017, il silenzio ripiomba nella vita pubblica di Sampha e sembra sia ritornato al suo ruolo di collaboratore, lontano dalle luci dei grandi palchi e con una bambina nata durante la pandemia.
Ed eccoci arrivati ad oggi, con l’annuncio del suo secondo album intitolato Lahai, nome di suo nonno nonché il suo secondo nome all’anagrafe. Laddove in Process il focus era posto sulla perdita di una persona cara e sulla sofferenza provocata da questo, Lahai si concentra su temi quali la spiritualità, il sogno, il tempo e lo spazio profondo.
L’album si apre con Stereo Colour Cloud (Shaman’s Dream) e con il famigerato pianoforte che ci terrà compagnia per quasi tutto l’album, usato quasi da simulare una rapidissima e delicata pioggerella – che non può non ricordare l’iconica All My Friends degli LCD Soundsystem – disturbata da una voce femminile che lo richiama a riflettere sul concetto del tempo e di quanto ne dedichi alle persone che ama.
Ci troviamo poi davanti a Spirit 2.0, uno dei brani chiave per comprendere l’album. Qui Sampha con la sua solita eccellente performance vocale ci invita ad apprezzare ciò che il mondo ha da offrirci, richiamando per la prima volta Jonathan Livingston, comparandosi a lui nel tentativo del gabbiano raggiungere le nuvole nei suoi voli liberi. Sul finale possiamo anche sentire cantare in coreano Yaeji, che traducendo ci dice «Where did the words I wanted to say go? Where did the words go?».
Il disco non smette di stupire nemmeno in Dancing Circles, un brano estremamente evocativo che parla di due persone che non si vedono da tanto tempo, ricordandosi quanto fosse bello per loro danzare insieme e quanto sia magico ora potere tornare a farlo.
Sinkin’ in how you feel
Thinkin’ how much you’ve changed
Swimmin’ in how we feel
Being apart again
Rimane questo tono in un limbo tra malinconico ed elegante anche in Suspended, in cui Sampha sembra vivere un sogno lucido, alludendo più volte a una visione distorta del tempo e della realtà. Un dream state che riesce a trasportare meravigliosamente nella sua musica, impreziosita particolarmente in questo pezzo da una produzione impeccabile.
All’improvviso, tutto si ferma in Satellite Business, che sembra più un flusso di pensieri atti a espandere i temi trattati nell’ultima traccia: un legame indissolubile tra il passato rappresentato dalla figura della madre, il presente e un futuro che vede negli occhi di sua figlia. A un primo ascolto può sembrare un pezzo riempitivo, ma è un tassello fondamentale per comprendere la visione concettuale di Lahai.
Thinking, “Maybe there’s no ends
Maybe just infinity
Maybe no beginnings
Maybe just bridges”
Un “ponte” che dall’altro suo estremo lascia spianata la vista per quello che reputo il migliore brano dell’album, se non addirittura la canzone più bella che ho avuto il piacere di ascoltare quest’anno: Jonathan L. Seagull è una carezza sul viso, una rappresentazione del sorriso che rimane impresso nel volto di chi ha appena avuto a che fare con l’accettazione di un evento troppo grande per essere gestito d’istinto, quasi post traumatico. Riprende ovviamente i concetti della prefazione scritta a inizio articolo e sprigiona il messaggio di fondo della fiaba con una dolcezza rara, ripetendo all’inizio e alla fine della canzone queste parole:
Even though we’ve been through the same
Doesn’t always mean we feel the same
Doesn’t always mean we heal the same
You are not me and that’s okay
Seasons come, seasons cry
Seasons grow and seasons die
How high can a bird ever fly? Ever Fly?
Dopo essere stati demoliti emotivamente dai voli scenografici del gabbiano, Sampha ci delizia con Inclination Compass (Tenderness): una ballad musicalmente minimale con il solito bellissimo piano in sottofondo che lascia aria alla voce e alle parole di Sampha. Parole che descrivono il bisogno di una persona di ritrovare una tenerezza da tempo a lei smarrita per via di un amore non più presente nella sua vita.
Veniamo poi a Only: il secondo singolo dopo Spirit 2.0 ad essere stato pubblicato prima dell’uscita dell’album. Con questo pezzo abbandoniamo per un attimo l’estetica immacolata delle ultime tracce per tornare a un brano più movimentato e radio friendly, ma non per questo meno interessante o curato. In Only Sampha parla dell’importanza di credere in sé stessi, ricordando che l’unica persona che possa realmente cambiare il proprio destino sia essa stessa.
Piccolo momento di pausa con l’interlude Time Piece che introduce la decima traccia Can’t Go Back, che non smette di stupire dal punto di vista della produzione, nemmeno a questo punto dell’album. Evidence invece è un commovente tributo alla già citata figlia in cui Sampha dimostra per l’ennesima volta una dolcezza e una sensibilità infinite:
I can get stuck in perfection
I can get lost in directions
I can be gone in a second
Sorry, I lost the connection
I can get lost in reflection
I can be gone in a second
Un altro interlude strumentale chiamato Wave Therapy introduce la penultima canzone dell’album: What If You Hypnotise Me? è un brano che compara nella sua percezione la terapia con una sorta di ipnosi, un modo per darsi pace dalle persistenti domande esistenziali che ci poniamo in momenti difficili. Trovo interessante come questo sia un album nato da forti tormenti personali, ma che nonostante questo in ogni canzone si possa notare il tentativo di Sampha di trovare un angolo felice, qualcosa a cui si possa aggrappare. Degnissima di nota anche la conclusione della traccia affidata alla splendida voce di Léa Sen.
Lahai chiude letteralmente il suo cerchio in Rose Tint, un brano che parte con l’ormai solita delicatezza, ma che si chiude con la disturbante sensazione di stare vivendo un incubo. Le lyrics fanno trasparire questa irrequietudine in punti quasi urlati come «Everybody speaking loud, everybody in one house». E tutto questo dona una meravigliosa ciclicità con l’inizio dell’album, come se ogni volta che iniziassimo il disco potessimo vedere Sampha risvegliarsi da un brutto sogno, quello stesso sogno che torneremo talvolta a vivere più avanti nelle tracce.
In conclusione, Lahai è un lavoro immenso, con un’attenzione al dettaglio maniacale che da un senso molto concreto alla lunghissima attesa che ha preceduto questo tanto sperato ritorno. Ma Lahai non è solo ricerca meticolosa del perfezionismo: Sampha ci ricorda a più riprese di volare liberi con i nostri pensieri come Jonathan Livingston, di amare il prossimo e di apprezzare il presente dando il giusto peso anche a ciò che è stato e ciò che sarà. E lo fa con una voce celestiale, con la stessa voce che ha fatto commuovere tutti in (No One Knows Me) Like The Piano, senza però rimanere incastrato in una formula che avrebbe già accontentato molti fan in trepidante attesa, ma anzi innovando e superando barriere che sembravano già essere state poste troppo in alto.