Milano

Ho toccato la schiena sudata di Blank Banshee

Blank Banshee è un pazzo scatenato, punto. Potrebbe terminare così il riassunto della serata vissuta lo scorso 27 novembre all’Arca di Milano, unica tappa italiana del 4D Tour dell’artista mascherato canadese. Tuttavia, per dovere di cronaca, è giusto approfondire il racconto di quella che è stata l’ora più folle ed insensata del mio 2023. Cominciamo col dire che Blank Banshee, per chi non lo sapesse, è il precursore del genere vaportrap, sottogenere che mescola gli elementi della vaporwave con la trap. Di lui si conosce nome, cognome, età, paese e città d’origine, ma nessuno lo ha mai visto in faccia. Infatti, ad ogni live, si nasconde dietro ad una maschera brillantinata, passamontagna e cappuccio. La fama è arrivata nel 2012, all’apice della popolarità della vaporwave, con la canzone simbolo Teen Pregnancy estratta dal suo album di debutto Blank Banshee 0, dopodiché il suo anonimato, Internet, i “meme” e tutto il resto ha permesso alla sua figura di farsi conoscere in tutto il mondo, Italia compresa. Infatti, Blank Banshee aveva già fatto visita all’Italia diverse volte in passato: nel 2017 (Bologna) e nel 2019 (Bologna, Milano e Roma), mentre l’unica presenza del 2021 (ai Magazzini Generali di Milano) venne annullata per le questioni sanitarie legate al COVID-19 – e, aggiungo, gran peccato visto che vivevo a pochi passi dalla venue. Insomma, questo ritorno nella nostra penisola era davvero molto atteso dai suoi fan di lunga data e dal sottoscritto, che non aveva ancora avuto piacere di vedere una sua esibizione. E l’Arca è il posto perfetto per accoglierlo perché questo spazio polifunzionale, fondato appena un anno fa, mira ad essere un punto di riferimento per la scena elettronica a Milano. Veniamo al dunque. Parcheggio la mia auto poco distante dal locale, entro dentro verso le 20:30 e, in attesa dell’inizio alle 21:30 con tanto di countdown proiettato sul muro, scambio quattro chiacchiere con un mio amico. La stanza non è enorme, le persone non sono tante, ma l’atmosfera è quella di una serata piena di adrenalina e tra veri supporters di Blank Banshee. Appena termina il tempo, la folla inizia ad acclamare la presenza di Blank Banshee e lui sbuca fuori. Sulla sua postazione non ha nulla se non un computer portatile e un launchpad: un segnale iniziale che potrebbe far pensare a un pre-set a cui basta premere avvio. Invece, già dopo i primi secondi, il nostro eroe mascherato si scatena, facendo rimbalzare le proprie dita sulla propria strumentazione. Quello che avviene dopo è difficilmente descrivibile. Si susseguono diversi pezzi del proprio repertorio, a partire da Blank Banshee 0 fino ad arrivare a 4D, l’ultimo album prodotto. L’artista nordamericano carica la folla nelle primissime fasi con sonorità forti e potenti, riuscendo successivamente ad alternare questi momenti concitati con quelli più distesi – anche se, dal vivo, anche brani cosiddetti “leggeri” risultato martellanti grazie alla resa dei bassi. Blank Banshee è abile a regalare numerosi colpi di scena al pubblico con la propria musica, ma anche i video, proiettati alle sue spalle, contribuiscono alla resa dell’atmosfera generale. Grafiche spartane ed essenziali tipiche della vaporwave, più altri elementi propri del progetto come, ad esempio, le varie copertine degli album. In un battibaleno, un’ora di concerto è volata e arriviamo al termine di esso, con Blank Banshee che si getta sul pubblico scatenato. In pochi secondi viene accerchiato e il nostro uomo passa la restante mezz’ora a prestarsi per foto e autografi. Tra le migliori scene possiamo ricordare: un tizio che tira fuori un fazzoletto di carta e una penna; un altro tipo che gli porge un libro di Pier Paolo Pasolini; il bodyguard che lo invita a tornare nel backstage, ma lui lo respinge dicendo che non ci sono problemi. Proprio quest’ultimo fatto mi ha notevolmente colpito: Blank Banshee, nonostante la maschera, ama il proprio pubblico e ringrazia tutti coloro che gli porgono un complimento. Come al sottoscritto, con un bel selfie completamente abbracciati, con la mia mano sulla sua schiena sudata e una forte stretta di mano finale. Non ci sono dubbi: Blank Banshee è l’eroe mascherato della gente comune di cui avevamo bisogno. Le prime due foto di questo articolo sono opera di Charles-Antoine Marcotte. Luca Basso

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Ci vuole più gente di mare come Daði Freyr

Il 18 settembre 2023, al Fabrique di Milano, è in programma l’attesissimo concerto di James Blake per l’unica tappa italiana del suo nuovo tour. Se fate una rapida ricerca su Google e affini troverete numerosi articoli in merito, dove si possono leggere parole di elogio e magnificenza verso l’artista britannico. Anche io avrei tanto voluto esserci: sebbene non abbia mai assistito ad un suo live, il rincaro dei prezzi dei biglietti che stiamo subendo qui in Italia mi ha fatto desistere. Però non è l’unico motivo perché la stessa sera, al Santeria Toscana 31, si esibiva Daði Freyr. In confronto, su di lui non c’è proprio nulla in Internet per quanto riguarda la sua scappatella a Milano – anzi, molto probabilmente questo articolo è il primo link che avete trovato. Eppure è strano perché con la sua Think About Things – presentata per l’Eurovision Song Contest 2020 – è stata una delle canzoni più ascoltate (e apprezzate) qui in Italia e nel resto dell’Europa. Effettivamente – senza nulla togliere al bellissimo Santeria – la location scelta è piuttosto piccola rispetto alle altre date del suo tour. Nonostante il giorno infame – mi chiedo perché di lunedì bisogna organizzare un concerto – mi presento al locale alle 20:30, giusto in tempo per vedere la mezz’ora di esibizione di Toucan. Non avevo sentito nulla del repertorio del cantautore irlandese, ma grazie solo alla propria voce e alla propria chitarra (più una seconda suonata da un accompagnatore) è riuscito a rasserenare l’ambiente, coinvolgendo allo stesso tempo il pubblico facendolo cantare in alcuni spezzoni. Non passa inosservato, invece, la grande faccia gonfiabile di Daði posta dietro al piccolo palco, oltre alla serie di luci a neon attorno ad essa. L’intuito mi suggerisce che sarà tutto molto colorato ed esplosivo, proprio come la sua musica dance-pop. Finalmente, con una timida e pacata entrata in scena, Daði prende posto sul palco, insieme ad altri due musicisti, e saluta il pubblico italiano. Partenza in crescendo con Thank You per acclimatare i presenti e, al termine del primo brano, il “grattacielo” islandese inizia a scherzare con tutti. Sarà uno dei punti cardine della serata e ve lo spiego con alcuni episodi in ordine sparso: Saluta calorosamente una bambina in prima fila, sulle spalle del proprio padre; Prende in mano lo smartphone di una persona e inizia a farsi un video; Tenta di mettere mano sulla strumentazione della propria fonica, a lato del palco; Sfodera alcune pose scherzose e provocanti; Dice di aver bevuto un cappuccino dopo le 11:00 in una caffetteria; Ruba un secondo telefono e tenta di infilarselo nei pantaloni; Regala battute e perle di saggezza tra una pausa e l’altra. Insomma, quello che mi trovo davanti è un Daði Freyr pronto a scatenarsi e a divertirsi genuinamente con noi spettatori. E la scaletta prosegue con un ritmo scattante con canzoni quali Where We Wanna Be, Sometimes, Moves to Make, 10 Years e I’m Fine, senza dimenticare Skiptir ekki máli (unica canzone in islandese che io ricordi del concerto). Con una velocità impressionante arriviamo proprio a Think About Things a chiudere il tutto. Ma la sorpresa arriva con il “bis” perché, senza conoscere una parola d’italiano, inizia a cantare Gente di Mare di Umberto Tozzi e Raf, chiaramente con un foglio davanti a sé con il testo stampato. Dove lui sbaglia chiaramente parole, il pubblico risponde incoraggiandolo e cantando: il suo sforzo di farsi amico i milanesi è più che apprezzato e, anzi, è un chiaro segnale delle dell’amore verso la musica di Daði. Senza nulla togliere a James Blake, sono stato ben felice di essermi goduto Daði Freyr dal vivo. Ci vuole più “gente di mare” come lui nel mondo per rallegrare le nostre vite. Le bellissime foto sono di Ilaria Maiorino, le potete trovare qui. Luca Basso

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Ghemon, un microfono e un castello: è solo “Una Cosetta Così”

Non credo di far parte della categoria degli “ossessionati” di Ghemon, o meglio: ho quattro vinili, è l’artista italiano ai vertici delle mie classifiche di ascolto su Spotify e, di certo, anche in quelle internazionali, ma non sono uno che lo idolatra in tutto e per tutto. Il primo approccio alla sua musica fu a fine 2017, quando mi innamorai perdutamente di Mezzanotte in un periodo della mia vita in cui, da “ignorante musicale”, stavo esplorando il panorama del nostro Paese. Il conseguente primo concerto che ebbi modo di assistere è stato nel lontano 23 luglio 2018 al Lumen Festival di Vicenza, nel contesto del suo Criminale Emozionale Tour – ma che bomba di canzone è? – e con appresso Le Forze del Bene, la sua band capace di rendere ancora più meravigliose le sue canzoni. In stampelle, con una frattura scomposta a tibia e perone della gamba destra (per un infortunio subito durante in una partita di calcio), mi godetti parte del live perché i miei amici, non così troppo interessati, preferirono girovagare per il Giardino Salvi. Da allora, non ho mai avuto occasione di partecipare ad un altro concerto. Perché a Vicenza – dove sono nato – non è più venuto, perché la tappa di Treviso del 2020 è stata cancellata per la pandemia di COVID-19 e le restanti di Milano – dove mi sono trasferito – coincidevano con le mie trasferte di lavoro. Finché non è arrivata Una Cosetta Così: «Non è un concerto, non è un monologo teatrale e neanche uno spettacolo comico, ma in parte, un po’ di tutto questo». Non ci ho pensato due volte e ho comprato subito i biglietti per la data del 5 aprile a Milano, al Santeria Toscana 31 situato poco distante dal mio precedente appartamento. Peccato che il giorno precedente mi ritrovo la febbre a 39°C e devo dare forfait. «Che rabbia!» pensai, e forse Gianluca ha pensato a me inserendo un nuovo spettacolo il 26 giugno al Castello Sforzesco. Tutto questo preambolo serve a far capire quante aspettative nutrivo per Una Cosetta Così, e direi che sono state ampiamente rispettate in positivo. Poco prima di salire sul palco, Gianluca lancia un messaggio audio in cui invita a usare il meno possibile i nostri smartphone, ovviamente non mancando di fare qualche battuta e strappare qualche sorriso al pubblico. Questo per non svelare tutto lo spettacolo a chi, invece, non ha ancora avuto la fortuna di viverlo – e, infatti, se fate una ricerca nel web non troverete nessuna recensione che ne approfondisce le tematiche. Quindi, di conseguenza, anche chi scrive queste righe non dirà altro nello specifico. Quello che posso dirvi è che al centro della storia è Giovanni Luca Picariello (così all’anagrafe), il rapporto con la sua famiglia, la passione per il rap, la depressione e la sanità mentale, la vita casalinga, Sanremo, la fidanzata e le maratone. Gianluca è uno storyteller perfetto, un flusso continuo di parole e racconti in grado di catturarci in ogni momento. Tuttavia, la sensazione durante le (quasi) due ore è di un progetto ancora in fase embrionale: alcuni passaggi sono troppo ripidi e scollegati, alcuni momenti risultato sottotono rispetto agli altri, così come non sono immediate le canzoni scelte e cantate come intermezzo. Ecco, forse qui risiede la mia delusione perché non è stato pescato nulla dal repertorio di Ghemon, ma le esecuzioni in sé sono state da brividi, soprattutto una “rappata” vecchia maniera. Possiamo, però, apprezzare l’evoluzione del Ghemon rapper al Ghemon cantante, il duro lavoro dietro a questa crescita musicale. Ricordiamo che lo spettacolo è stato scritto da Gianluca insieme a Carmine del Grosso, comico già visto su Comedy Central Italia e in Battute?. Sarà Una Cosetta Così, ma in realtà è stata una sfida estremamente coraggiosa e affrontata con grande spontaneità e spessore. Storia bonus: chiusi i microfoni definitivamente, mi dirigo sul palco per chiedere ai tecnici se c’è la possibilità di un autografo al vinile di Mezzanotte, che tengo in quel momento nella mia sacca. Mi rimandano all’entrata laterale del backstage, dove pongo al tastierista la stessa domanda: ricevo un clamoroso no, ovvero che dovrò aspettare un bel po’ per averlo. Nel frattempo, gli addetti alla sicurezza cacciano dalla zona coloro che non hanno un braccialetto che, scoprirò solo dopo, serve per accedere al “dietro le quinte”. Deluso e ferito, torno a casa senza nulla di desirato in mano, anche se l’unica nota positiva è aver riconosciuto Kiave (Mirko, non ti ho chiesto la foto perché mi sembrava una forma di consolazione). Probabilmente era Scritto nelle Stelle… Luca Basso

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L’energia instancabile dei Florence and The Machine

But I hear the music, I feel the beat, and for a moment, when I’m dancing, I’m free. Una divinità scesa in terra. Una fata che qualsiasi di noi può facilmente immaginarsi in un mondo di Dungeons & Dragons. Un usignolo che tiene a bada una platea di più di 30.000 persone. Questo e molto altro è stato il concerto di Florence Welch, portavoce dei Florence and the Machine che hanno aperto il festival degli I-days all’ippodromo Snai San Siro di Milano, inaugurando così la mia stagione estiva di concerti. Non si riesce a restare estranei allo spettacolo dei Florence and the Machine, ci si resta invischiati, irretiti in una ragnatela composta da immagini e musica. Anche le grandi dimensioni del luogo, la mancanza d’intimità non spostano l’attenzione, non distraggono tanta e tale è la capacità seduttiva ed attrattiva della band e della frontwoman. Il loro concerto è un rituale che ferma il tempo e celebra la voce e la presenza di un soggetto artistico che prende vita per poi tornarsene nella sua tela. Quando Florence Welch sale sul palco degli I-days due timidi arcobaleni si mostrano prima dell’inizio dello spettacolo per poi lasciare spazio ad uno spicchio di luna sopra il poco, i pianeti si allineano: è il suo concerto, è il suo palco, è il suo pubblico. Lei fa ciò che vuole con la sua grazia e la sua voce. Non le si può rimproverare nulla (forse solo qualche balletto un po’ troppo studiato a tavolino e dall’effetto poco spontaneo) anche perché ha un pubblico fedelissimo, eterogeneo e pronto a celebrare un rito catartico durante il quale Welch non si risparmia; la sua voce è impeccabile, la sua band è precisa. Ci sono artisti che si adattano al pubblico e altri che il pubblico lo fanno entrare nel proprio mondo. Welch appartiene alla seconda categoria ed è una fuoriclasse. Ma andiamo con ordine. Una platea già scaldata a dovere dai gruppi di supporto (dalle sonorità R&B ed elettroniche dei Sudan Archives e dal soul indie rock dei Foals), si è lasciata trasportare dalla cantante inglese in una sorta di mondo ultraterreno, in una liturgia laica in cui l’officiante è proprio lei, che sa come stare sul palco e conquistare il pubblico, anzi rapirlo e portalo nei diversi mondi musicali, emotivi e sonori che, in compagnia della band, solo lei sa creare. Anche la scenografia lo ha testimoniato: piedi nudi sul palco, un vestito “svolazzante” che è diventata parte scenica dello spettacolo, fiori e ghirlande shakespeariani, capelli rossi al vento e sullo sfondo un tavolo (forse un altare) con dei candelabri e delle croci ricoperte da degli stracci bianchi hanno ha creato un’atmosfera cupa e mistica. Una donna tra l’umano e il divino, non c’è dubbio (così come il caldo umido che ha fatto da sfondo all’intera serata d’altronde). Ogni mio dubbio è stato però chiarito dalla canzone di apertura del concerto Heaven is here. Il concerto ha finalmente avuto inizio e i fan hanno acclamato la loro dea come se tutti fossero pronti a sacrificarsi per lei, come d’altronde confermato dalle parole che vengono urlate in coro: Oh bring your salt, bring your cigarette. Draw me a circle and I’ll protect. Heaven is here if you want it  Un rituale ha dato inizio alle danze (letteralmente) e anche io credo di aver versato la mia personale dose di patto di sangue grazie alla moltitudine di zanzare presenti con noi quella sera. Il tour Dance Fever ha così preso il via facendo percepire subito tutta l’energia e la carica dell’intera band grazie all’inno femminista King, alla potenza di Ship to Wreck e alla celebrazione alla vita Free che hanno fatto smuovere tutta la platea; tutto è diventato ancora più chiaro con Dogs Days are Over dove, il rituale riproposto ad ogni concerto di Florence, è stato ancora più potente. Dopo anni di distanze e assenze, di lontananze dettate dalla pandemia, la cantante ha invitato tutti ad abbassare i telefoni e ad abbracciarsi più forte che mai, manifestando il proprio amore in un salto collettivo in corrispondenza degli ultimi ritornelli della canzone: when I say run, I need everyone to jump high as they can! Florence, instancabile, ha percorso il palco cantando, sussurrando, parlando con il pubblico che ha risposto bene alle sue sollecitazioni e richieste. È scesa nel pit cercando coraggiosamente il contatto fisico con il suo pubblico e restando lì per lungo tempo ad accarezzare e farsi accarezzare. All’improvviso ci si è ritrovati catapultati in un mondo simil Midsommar che senza neanche farlo apposta ha coinciso con l’anniversario della celebrazione del solstizio d’estate. Come non approfittarne per regalare al pubblico una versione della magnifica June. Immancabili poi le versioni di You’ve got the Love, Shake It out, Cosmic Love e una versione totalmente inaspettata di Never Let me Go dopo dieci anni di assenza dai palchi. La finale Rabbit Heart (Raise it Up) ha chiuso lo spettacolo permettendo al pubblico di liberare le ultime energie rimaste e di scaricare tutti i propri cattivi pensieri e preoccupazioni godendosi a pieno il momento. Che dire quindi. La Welch, sempre in lotta con le sue debolezze nei testi della sua musica, ha esorcizzato il tutto con una personalità magnetica e con una voce potente, virtuosa, senza interruzioni e senza perdere per un attimo la forza in quel canto quasi liberatorio. Sempre in bilico tra oscurità e luce, tra drammatico ma al tempo stesso romantico e intimista che tocca l’anima e il cuore, rimane una delle poche persone in grado di farmi commuovere. Florence, you’re a gift. Francesca Muscio

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Il fiasco dei NxWorries (Anderson .Paak e Knxwledge) al Fabrique di Milano

Andiamo dritti al punto: quello dei NxWorries – il superduo formato da Anderson .Paak e dal produttore Knxwledge – al Fabrique di Milano è stato il concerto più brutto a cui abbia mai assistito negli ultimi dieci anni. Non scherzo mica, credetemi. Nella mia vita ho visto tonnellate di esibizioni: dalla più becera delle cover band degli 883 agli artisti più apprezzati del globo. Un curriculum che farebbe rabbrividire perfino quel sapientone di Red Ronnie. Tutto esaurito e alte aspettative Prima di partire, riavvolgiamo il nastro a gennaio. Il nuovo anno è perfetto per fissare nuovi obiettivi e, personalmente, ho deciso di vedere finalmente dal vivo Anderson .Paak in qualsiasi tipo di forma. Ed eccola lì la possibilità: 25 maggio a Milano con il compagno di merende Knxwledge, tra l’altro come prima tappa del tour europeo del loro fichissimo progetto NxWorries. Lancio l’invito ad una mia amica e prendiamo i biglietti senza pensarci. Sgancio 83,44 euro a quei falliti di TicketOne – si scherza! Ma sempre siano maledette le vostre commissioni –, segno sul calendario l’evento da non perdere ed è praticamente fatta. Due giorni prima, però, ricevo un pacco clamoroso dalla mia accompagnatrice, sicché mi trasformo in un lupo solitario. Giovedì termino di lavorare e scatto da casa alle 19.15, tempo di parcheggiare l’auto alle 20:00 proprio per l’inizio previsto del DJ set di Knxwledge. Vedo una fila chilometrica all’entrata e mi rendo conto solo in quel momento dell’effettivo sold out. Niente paura, in pochi minuti sono dentro: sebbene non ho cenato, sono bello carico perché trovo spazio a pochi passi dal palco. Ritardi, attese e bestemmie Ma eccola l’inchiappettata. Rimaniamo in piedi, con lo sguardo perso sul vuoto, fino a quando Knxwledge compare svogliato alla consolle, posizionata in un soppalco rivestito da tre grandi schermi a LED, alle ore 21:00. L’inizio è abbastanza scialbo, tant’è che nessuno nei miei paraggi accenna un minimo movimento.La scossa arriva con Daydreamin, singolo uscito una settimana fa e il cui videoclip di GTA V appare negli schermi, ma di Anderson .Paak nessuna traccia. Il burlone esce allo scoperto al fianco di Knxwledge, tra l’altro con un vistoso copricapo peloso, e svela di aver cantato nascosto dal pubblico. Qui inizia, dico, il vero concerto, ma capisco poco dopo di essere arrivato troppo frettolosamente a questo presupposto. Infatti, Anderson .Paak esegue un paio di canzoni dall’album d’esordio del duo, Yes Lawd!, e ritorna nel dietro le quinte, per lasciare solo soletto Knxwledge ai “piatti”. Una mossa che ammoscia l’atmosfera dopo la breve e grintosa presenza del suo teammate, tant’è che la folla ritorna composta. Così funziona: Anderson .Paak entra, canta qualche canzone, abbandona il palco, Knxwledge mette qualche pezzo e così in loop. Via i microfoni Dopo appena un’ora, i due salutano il pubblico di Milano e si ritirano nelle loro stanze e letteralmente tutti rimaniamo confusi. Le luci, a mano a mano, si accendono, i tecnici procedono a rimuovere addirittura l’asta del microfono, ma la gente non si sposta: iniziano le prime urla e, da qualcuno, anche qualche fischio. Io, invece, sono alla ricerca dei testicoli che sono caduti da qualche parte… Il clima, per non dire pesante, è parecchio teso. Knxwledge se ne accorge e riappare alla consolle, ma solamente per rovinare ancor di più la serata con Wonderwall degli Oasis – già brutta di suo – su un’orrenda base hip hop. Anderson .Paak prova a metterci la pezza con un’ultima canzone, ma nemmeno i suoi pettorali sudati e il suo sorriso risolleva la situazione. “We love Milano”, ciao e arrivederci, con tanto di pedata sul sedere. Un ibrido che non convince Tralasciando il tentativo di presentarmi come un simpaticone con il racconto qui sopra, perché questo concerto è totalmente da buttare nel cestino? Innanzitutto, l’ibrido tra DJ set e live non ha convinto fin dall’inizio. Di certo ero uno dei pochi che sapeva di andare ad assistere a un concerto hip hop nel vero senso del termine, quando invece la maggioranza del pubblico era lì solo per Anderson .Paak, con annesse aspettative da live band e musica retrò. Tuttavia, le scelte proposte da Knxwledge non hanno funzionato: i passaggi tra un brano e l’altro sono risultati imprecisi e confusionari, poco in sintonia rispetto alle potenti entrate in scena di Anderson .Paak. Per fare un veloce paragone, sembrava di stare sulle montagne russe: Anderson .Paak regalava una forte scarica di adrenalina sul palco, mentre Knxwledge da solo in consolle abbassava notevolmente i toni con il suo repertorio personale. Avrei accettato e capito le due cose separate come da copione – nella mail di D’Alessandro e Galli era ben specificato DJ set di Knxwledge alle 20:00 e concerto alle 21.00 – o la stessa linea d’onda (di ritmo, di sound, di proposte) tra DJ set e live, ma è stato un completo fiasco. “È un duro lavoro, ma qualcuno deve pur farlo” Infine, la durata è stata imbarazzante rispetto alla quantità di materiale prodotto. Se togliamo dal concerto i momenti effettivi in cui Knxwledge è rimasto da solo sul palco, le chiacchierate di Anderson .Paak con il pubblico e il “bis”, posso confermare senza troppi problemi di aver sentito solo 30 minuti scarsi del pacchetto NxWorries. Attenzione, non sto dicendo che queste esibizioni devono, per forza di cose, durare un’eternità per divertirsi a mille: con i Superorganism, al Magnolia di Milano nel lontano 2018, rimasi completamente estasiato e felice per uno spettacolo di, appunto, mezz’ora, ma perché avevano anche esaurito tutte le loro canzoni e avevano regalato uno show unico. Qui, invece, il problema è stata una certa frettolosità e svogliatezza da parte sia di Knxwledge sia di Anderson .Paak nell’esibirsi, come se avessero altri impegni in agenda: non la mentalità che ci si aspetta di fronte a un pubblico da tutto esaurito. Anche il cosiddetto “bis” è arrivato dopo una decina di minuti di nulla cosmico, parso più un rattoppo piuttosto che una cosa nata spontanea dai due. Quello che (non) ci resta Non nascondo che ci sono stati dei momenti

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