Francesca Muscio

James Blake al Fabrique: back to the origins

James Blake @ Fabrique, foto di Maria Laura Arturi Riunione infinita al lavoro, sciopero Atm (per chi non è di Milano, sciopero dell’Azienda dei Trasporti Milanesi che, negli ultimi anni, si verifica, tendenzialmente, ogni due settimane) e acquazzone come dio comanda. Tutte le mie volontà di arrivare al concerto ad un orario decente falliscono miseramente. Allo stesso modo, anche le mie aspettative vengono ribaltate totalmente: convinta che avrei pianto dall’inizio alla fine del concerto, mi ritrovo fin da subito in un dj suonato circondato da luci al neon e fumi sottopalco. È impossibile restare fermi. Sul palco, oltre ad un affascinante James Blake alle tastiere, un set composto solamente da un batterista e un polistrumentista che alterna tastiere e diavolerie elettroniche con le chitarre. Ognuno suona su ritmi, basi, volumi differenti, c’è chi accelera improvvisamente, chi rallenta, chi crea caos, chi crea ordine. Sembra impossibile creare un live simile, ma in tre riproducono un muro sonoro devastante. Il 18 settembre 2023 al Fabrique di Milano rappresenta la prima data del tour europeo di Playing robots into Heaven, sesto album del cantante britannico che ritorna alle sue origini elettroniche. La maggior parte del materiale è frutto di schizzi su sintetizzatori modulari che il cantante portava in tournée, facendo jam session per passare le ore tra un concerto e l’altro. Alcune di queste registrazioni si sono trasformate in strumenti per i suoi DJ set e alla fine sono diventate le fondamenta di brani adatti al dancefloor. Blake strizza l’occhio alle sue radici dubstep e intreccia elementi di techno, R&B, house e ambient, mantenendo la sua distintiva e gelida malinconia come file rouge e accompagnando il tutto dalla sua voce soul. Il risultato è un’evoluzione ispirata del suo sound, con Blake che di tanto in tanto guarda nello specchietto retrovisore mentre si muove in una nuova direzione. La scaletta del concerto è infatti un susseguirsi di improvvisazioni elettroniche e di composizioni del repertorio di Blake di una qualità e raffinatezza impressionanti. Preoccupato di fare brutta figura e di mandare tutto all’aria (“we can all fuck this up”, ha detto moderatamente titubante), James Blake ci propone suoni da club e echi dub, energia techno e beat hip hop che si tessono attraverso i nuovi brani come Asking to break, Loading, Fall Back e Tell me. Elemento essenziale del concerto è il ritmo che a volte ti martella con la cassa dritta mentre in altre occasioni fa fatica a prendere corpo, lasciando un senso d’incompletezza. Anche la platea sembra un po’ frastornata, sempre in attesa di un liberatorio momento a cui affidarsi con certezza e tranquillità per viaggiare su dei comodi vagoni. Quando però la direzione si fa chiara e prende per mano la composizione, che sia di elettronica pura, sia che sia pop, tutto diventa magico e accattivante. Fire the editor del nuovo album è una carezza ma dal vivo si trasforma sul finale in un lungo strumentale con la batteria elettronica che colpisce nel petto. L’ultimo album è però anche la cornice della riproposizione dei pezzi storici dell’artista, a partire da Limit to your Love, la ballad onirica spezzata dal silenzio e da echi malinconici a Big Hammer e Hummingbird. Giocandosela a parimerito con Justin Vernon dei Bon Iver, Blake è l’artista della malinconia, il più infido e ricco dei sentimenti umani, sentimento rannicchiato al sicuro nel suo sofferto, pieno e rotto timbro vocale. Ovviamente, uno dei miei sentimenti dolorosamente preferiti. «Thank you for being the first to hear the new songs, live. Thank you for coming» dice Blake al termine del concerto, in cui non ha quasi mai parlato con il pubblico, ma si è rivolto a ogni persona presente con la sua musica, il suo linguaggio. Un live che verso il finale propone Godspeed, cover di Frank Ocean per chiudere poi con il brano Modern Soul del 2016 che si ricollega agilmente con i suoni del nuovo album, coerente con il resto della scaletta. Un concerto illuminante, e spiazzante al tempo stesso, assolutamente da godersi che, a mio parere, funzionava di più quando il groove alzava i toni ma perdeva un po’ di smalto quando si addentrava nella dimensione più intimistica. Matteo Russo

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L’energia instancabile dei Florence and The Machine

But I hear the music, I feel the beat, and for a moment, when I’m dancing, I’m free. Una divinità scesa in terra. Una fata che qualsiasi di noi può facilmente immaginarsi in un mondo di Dungeons & Dragons. Un usignolo che tiene a bada una platea di più di 30.000 persone. Questo e molto altro è stato il concerto di Florence Welch, portavoce dei Florence and the Machine che hanno aperto il festival degli I-days all’ippodromo Snai San Siro di Milano, inaugurando così la mia stagione estiva di concerti. Non si riesce a restare estranei allo spettacolo dei Florence and the Machine, ci si resta invischiati, irretiti in una ragnatela composta da immagini e musica. Anche le grandi dimensioni del luogo, la mancanza d’intimità non spostano l’attenzione, non distraggono tanta e tale è la capacità seduttiva ed attrattiva della band e della frontwoman. Il loro concerto è un rituale che ferma il tempo e celebra la voce e la presenza di un soggetto artistico che prende vita per poi tornarsene nella sua tela. Quando Florence Welch sale sul palco degli I-days due timidi arcobaleni si mostrano prima dell’inizio dello spettacolo per poi lasciare spazio ad uno spicchio di luna sopra il poco, i pianeti si allineano: è il suo concerto, è il suo palco, è il suo pubblico. Lei fa ciò che vuole con la sua grazia e la sua voce. Non le si può rimproverare nulla (forse solo qualche balletto un po’ troppo studiato a tavolino e dall’effetto poco spontaneo) anche perché ha un pubblico fedelissimo, eterogeneo e pronto a celebrare un rito catartico durante il quale Welch non si risparmia; la sua voce è impeccabile, la sua band è precisa. Ci sono artisti che si adattano al pubblico e altri che il pubblico lo fanno entrare nel proprio mondo. Welch appartiene alla seconda categoria ed è una fuoriclasse. Ma andiamo con ordine. Una platea già scaldata a dovere dai gruppi di supporto (dalle sonorità R&B ed elettroniche dei Sudan Archives e dal soul indie rock dei Foals), si è lasciata trasportare dalla cantante inglese in una sorta di mondo ultraterreno, in una liturgia laica in cui l’officiante è proprio lei, che sa come stare sul palco e conquistare il pubblico, anzi rapirlo e portalo nei diversi mondi musicali, emotivi e sonori che, in compagnia della band, solo lei sa creare. Anche la scenografia lo ha testimoniato: piedi nudi sul palco, un vestito “svolazzante” che è diventata parte scenica dello spettacolo, fiori e ghirlande shakespeariani, capelli rossi al vento e sullo sfondo un tavolo (forse un altare) con dei candelabri e delle croci ricoperte da degli stracci bianchi hanno ha creato un’atmosfera cupa e mistica. Una donna tra l’umano e il divino, non c’è dubbio (così come il caldo umido che ha fatto da sfondo all’intera serata d’altronde). Ogni mio dubbio è stato però chiarito dalla canzone di apertura del concerto Heaven is here. Il concerto ha finalmente avuto inizio e i fan hanno acclamato la loro dea come se tutti fossero pronti a sacrificarsi per lei, come d’altronde confermato dalle parole che vengono urlate in coro: Oh bring your salt, bring your cigarette. Draw me a circle and I’ll protect. Heaven is here if you want it  Un rituale ha dato inizio alle danze (letteralmente) e anche io credo di aver versato la mia personale dose di patto di sangue grazie alla moltitudine di zanzare presenti con noi quella sera. Il tour Dance Fever ha così preso il via facendo percepire subito tutta l’energia e la carica dell’intera band grazie all’inno femminista King, alla potenza di Ship to Wreck e alla celebrazione alla vita Free che hanno fatto smuovere tutta la platea; tutto è diventato ancora più chiaro con Dogs Days are Over dove, il rituale riproposto ad ogni concerto di Florence, è stato ancora più potente. Dopo anni di distanze e assenze, di lontananze dettate dalla pandemia, la cantante ha invitato tutti ad abbassare i telefoni e ad abbracciarsi più forte che mai, manifestando il proprio amore in un salto collettivo in corrispondenza degli ultimi ritornelli della canzone: when I say run, I need everyone to jump high as they can! Florence, instancabile, ha percorso il palco cantando, sussurrando, parlando con il pubblico che ha risposto bene alle sue sollecitazioni e richieste. È scesa nel pit cercando coraggiosamente il contatto fisico con il suo pubblico e restando lì per lungo tempo ad accarezzare e farsi accarezzare. All’improvviso ci si è ritrovati catapultati in un mondo simil Midsommar che senza neanche farlo apposta ha coinciso con l’anniversario della celebrazione del solstizio d’estate. Come non approfittarne per regalare al pubblico una versione della magnifica June. Immancabili poi le versioni di You’ve got the Love, Shake It out, Cosmic Love e una versione totalmente inaspettata di Never Let me Go dopo dieci anni di assenza dai palchi. La finale Rabbit Heart (Raise it Up) ha chiuso lo spettacolo permettendo al pubblico di liberare le ultime energie rimaste e di scaricare tutti i propri cattivi pensieri e preoccupazioni godendosi a pieno il momento. Che dire quindi. La Welch, sempre in lotta con le sue debolezze nei testi della sua musica, ha esorcizzato il tutto con una personalità magnetica e con una voce potente, virtuosa, senza interruzioni e senza perdere per un attimo la forza in quel canto quasi liberatorio. Sempre in bilico tra oscurità e luce, tra drammatico ma al tempo stesso romantico e intimista che tocca l’anima e il cuore, rimane una delle poche persone in grado di farmi commuovere. Florence, you’re a gift. Francesca Muscio

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