È incredibile pensare che una band con un suono così moderno sia arrivata oltre il ventesimo anno di esistenza riuscendo sempre a portare un alto standard di qualità nel corso di una discografia che anche alcuni mostri sacri possono invidiare.
Il progetto dei Gorillaz è andato ben oltre il semplice concetto di band: c’è una lore composta da personaggi animati come 2D, Murdoc e Noodle che non mi permetto nemmeno di andare a toccare per via della profonda stratificazione data dallo stesso leader – in questo caso fisico – Damon Albarn, che funge da “tuttofare”, dando vita a questi membri virtuali che tra un music video e l’altro passano innumerevoli avventure dettate dai temi dell’album o della singola canzone in questione.
Ma veniamo a Cracker Island, l’ottavo album che viene a meno di due anni dall’uscita di Song Machine, un progetto che mischiava stili diversissimi di innumerevoli ospiti e dava loro un collante nell’inconfondibile stile “Lo-Fi” che contraddistingue i Gorillaz.
Il progresso di un percorso già battuto
Parto facendo questo piccolo passo indietro perché penso che Song Machine abbia molto influenzato lo stile che sentiamo in quest’ultimo album: ormai Albarn ha poco da dimostrare ed è davvero evidente che stia cercando un modo per divertirsi e fondere il suo talento con quello di altri suoi (talentuosissimi) amici.
Parlando di talento, l’album si apre con la title track Cracker Island con il contributo di Thundercat, che porta con sé le sue solite ipnotiche back vocals e un ritmo contagioso. Un buon presagio per il resto del disco? Eh, non proprio.
Finita la prima traccia ci ritroviamo due pezzi che cadono nel calderone della mediocrità: Oil e soprattutto The Tired Influencer risultano quasi stucchevoli da quanto fittino perfettamente nello stereotipo della “tipica canzone da Gorillaz”, e purtroppo posso anticiparvi che questa sensazione tornerà più volte.
Ci risvegliamo con un vero highlight in Silent Running, un brano molto più ispirato e impreziosito della presenza di un membro del coro che Damon Albarn è solito portare nei suoi tour: la voce di Adeleye Omotayo è fenomenale e crea una forte immagine nella mente dell’ascoltatore.
Un altro singolo forte e degno di nota è New Gold, un pezzo quasi dance che vede Bootie Brown e Tame Impala, considerato all’unanimità l’icona dell’indie music. È un brano che per me funziona molto bene, non ha pretese eccessive ed è arrangiato nel modo giusto.
Le parole dolci riguardo Cracker Island stanno iniziando a finire perché – come preannunciato in precedenza – nei prossimi brani torneremo in una palude insipida fatta di pezzi difficilmente criticabili ma altrettanto difficilmente memorabili.
Fanno parte per me di questa lista senza dubbio Baby Queen, Tarantula (forse il culmine di quanto detto prima e quindi anche il peggior punto dell’album) e con Tormenta che merita qualche parola di più:
Io posso capire che inserire Bad Bunny in un album dei Gorillaz possa essere sembrata un’ottima idea nella testa di Damon Albarn e di qualche membro della discografica per cui ha firmato e devo ammettere che leggendo quel nome per la prima volta ero curioso di sentire il risultato, ma quello che è uscito fuori la trovo una grandissima occasione sprecata da entrambe le parti.
L’album poi ci lascia con due note malinconiche, anche se positive nel giudizio: Skinny Ape e Possession Island (con quell’essere meraviglioso che prende il nome di Beck). Entrambe ottime, l’ultima in particolare è una delle canzoni più intime e delicate di tutta la discografia della band, permeata di nichilismo e di un senso di nostalgia avvolgente da quanto confortevole riesce ad apparire:
Where things, they don’t exist
And we’re all in this together ‘til the end
Un album agrodolce
Cracker Island è un album tanto facile da ascoltare quanto difficile da giudicare, perché è evidente che ci siano non poche mancanze o semplici opportunità non sfruttate a dovere, ma una parte di me non riesce a smettere di sentire in shuffle alcuni dei pezzi che ho considerato funzionanti.
Per dare una massima su quest’album, credo sia uno dei lavori più stanchi di uno degli artisti più incredibili degli ultimi 20 anni, ma nonostante questo riesce ad essere un prodotto interessante e meritevole di uno o più ascolti. La mia è una promozione con l’amaro in bocca.