The National

Primavera Sound 2024: pagellone di fine festival (parte 1)

Dopo tre anni di presenze consecutive al Primavera Sound, l’aria di Barcellona inizia ad esserti familiare: guardi commosso l’immensità reverenziale del Parc Del Forum dal finestrino dell’aereo sul punto di atterrare, predici i tempi di trasporto dall’aeroporto al centro città con più precisione di quanto indichi Google Maps e sai già dove sia lo scaffale con sopra il tuo succo iperzuccherato preferito al Mercadona di fiducia. Ti fermi a pensare a quanto sia cambiato nella tua vita dall’ultima volta in cui hai calpestato quelle scale della metro Besos Mar e ti accorgi di come tutto cambi pur rimanendo tutto uguale. È arrivata quella settimana dell’anno, le preoccupazioni sono rimaste nella valigia che hai deciso di non imbarcare per risparmiare i 50 euro che chiedeva Ryanair. Sei dannatamente felice. L’anno scorso vi ho portato insieme a me con un diario di bordo personale che raccontava passo dopo passo le mie avventure tra gli infiniti palchi che offre il festival. Quest’anno proverò a riassumere tutto in una formula che il Primavera stesso mi ha aiutato ad amare: condividendo esperienze con dei miei amici. Questo articolo sarà scritto a sei mani insieme ad Antonio Genovese e Marco Bisceglie, che avete già avuto modo di conoscere nella breve ma intensa storia di questo sito. Ognuno di noi avrà una manciata di concerti da analizzare e valutare a modo suo. The National (Antonio Genovese) Sì può essere obiettivi nella recensione di un live se il tuo cantante preferito, della tua band preferita, passa buona parte del concerto abbracciandoti, sudandoti addosso, rischiando di seppellirti sotto il suo metro e novantacinque di altezza? Sì può essere obiettivi se ti concede di cantare (urlare sarebbe più appropriato) due o tre versi di England, un posto che è stato parte della tua vita negli ultimi otto mesi? La risposta è sì, perché chiunque fosse presente al Razzmatazz il 29 maggio può raccontare di aver assistito alla miglior versione della carriera dei National. Una band che ormai riesce ad andare col pilota automatico, i cui membri sanno esattamente come interagire tra loro e con il pubblico, senza per questo perdere quella spontaneità e gioia di suonare: Aaron e Bryce Dessner giocano con le loro chitarre come se ne scoprissero le potenzialità per la prima volta, divertendosi ad allungare le code di pezzi incendiari come Smoke Detector, su cui Matt Berninger può continuare a biascicare durante gli oltre otto minuti di canzone. È su di lui che ricadono gli sguardi di tutti. Per quanto i National siano una band corale, in cui tutti i membri partecipano alla fase compositiva e hanno un’impronta riconoscibile, durante il live gli occhi sono inevitabilmente avidi del frontman: lo seguono, lo cercano quando lo perdono in una delle sue scorribande tra il pubblico, dove il suo volto cerca di nascondersi tra le spalle e i capelli delle persone in prima, seconda e terza fila. E nel primo live di questo tour estivo lo fa costantemente, forse proprio galvanizzato dall’ entusiasmo per la prima data (spoiler: l’ho visto una settimana dopo a Roma, e il trasporto è stato lo stesso) o dalla dimensione raccolta della venue. Il paragone con il Matt Berninger di due anni prima, dimesso, quasi impaurito del contatto con i fan, è impietoso. Un live dei National è diventato un momento di catarsi collettiva in cui perdersi e ritrovarsi, un luogo in cui il muro del suono viene abbattuto su pezzi come Abel (molti), o dove ad essere abbattute sono tutte le barriere emotive, come accade sul crescendo baritonale di About Today (forse un po’ pochi a causa di una scaletta che ha prediletto pezzi più muscolari). Il momento finale è dove quella catarsi si scioglie: la band diventa pubblico e il pubblico band per cantare insieme sulle note di Vanderlyle Crybaby Geeks con il microfono posizionato in prima fila in direzione dei fan e Matt, con la giacca nuovamente indosso per il gran finale, a fare da direttore d’orchestra e mimare i versi della canzone. VOTO: 9 The Dare (Matteo Russo) Ormai lo sappiamo: il Primavera Sound è anche un palcoscenico per fare esplodere nuove generazioni di musicisti. E quale esempio migliore dello show in Sala Apolo alle 2 del mattino di Harrison Patrick Smith – in arte The Dare – progetto di un incravattato e sbarbato newyorkese che tanto deve della sua estetica al mio amato James Murphy degli LCD Soundsystem. Nella sua musica c’è l’esaltazione dell’eccesso usando uno stile che si sposa molto bene con il fresco d’uscita BRAT di Charli XCX, per cui ha anche curato la produzione di Guess. Il concerto poi è una bomba: un impero di synth spinti all’inverosimile, drop con bassi esagerati e crowd surfing sul finale su un pezzo in cui urla “They say i’m too f***ing horny, wanna put me in a cage”. Segnatevi il nome, perché di questo ne riparleremo molto presto. VOTO: 8 William Basinski: The disintegration loops (Antonio Genovese) Premessa: replicare un’ opera come i Disintegration Loops è impresa ardua, “specialmente se non sei Max Richter”, come sottolineato da William Basinski, salito sul palco al termine della performance per ricevere il riconoscimento del pubblico. Qualcosa, nella resa live dell’ opera, andrà inevitabilmente persa, tecnicamente o concettualmente. Mi ha sempre affascinato come nell’ opera si arrivasse dal punto A al punto B senza rendersene conto, come le note lentamente sbiadissero o si accattocciarsero su loro stesse di soppiatto, fin quando il nostro orecchio non si fosse accorto della variazione, facendocelo notare. E come questo momento fosse diverso da persona a persona e di ascolto in ascolto. Proprio come quando si prende coscienza di sé stessi in un determinato momento della vita e ci si guarda alle spalle, tirando le somme e domandandosi dov’è andato il tempo. Tutto questo, all’auditorium, non si percepisce: contrarre l’esecuzione in trenta minuti ha compresso il tragitto da A a B, creando piccole tappe intermedie che fungessero da punti di riferimento. Con l’orchestra è andata persa anche l’atmosfera di fondo, che su disco si fa via via più

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Recensione: The National – First Two Pages Of Frankenstein

Matt Berninger è invecchiato. Nel fisico, con gli occhiali da vista a cerchiare quegli occhi azzurri penetranti come una radiografia, la stempiatura che si allunga su una fronte un tempo ricoperta di ricci biondi, l’assenza dell’iconica bottiglia sul palco. Nello spirito, con il tono della voce dimesso, quasi arrendevole; le parole che si trascinano stanche e spezzate nelle inflessioni di corde vocali indebolite dal passare degli anni. Ce ne accorgiamo subito, a partire dalle prime note di Once Upon a Poolside prima traccia dell’ultimo capitolo firmato The National, che mai come stavolta sembra fungere da diario segreto per Matt, un luogo in cui possa riversare le paure e le ansie che lo avevano attanagliato negli ultimi anni e da cui aveva fatto così tanta fatica ad uscire. Sembra quasi inutile ribadirlo, ma come tutti i lavori dei National anche il nono album della band non è d’immediata facilità d’ascolto. Stavolta però, le difficoltà nell’approcciarsi a un lavoro di questo tipo non sono dovute alle sperimentazioni di Sleep Well Beast, con le chitarre distorte e le drum machine ad imprimere una nuova rotta alla band; né tantomeno alle aperture orchestrali e all’introduzione di voci femminili di I Am Easy to Find, l’album più eterogeneo e ambizioso che il gruppo abbia partorito nella sua storia ormai ventennale. O meglio, tutti questi elementi sono condensati nel nuovo lavoro come una sintesi naturale ed equilibrata del percorso svolto finora, ma sono posti sullo sfondo, per fare da contraltare alla voce di Matt, vera protagonista dell’album. E il motivo per cui ci è così difficile accostarci all’album, a farlo nostro del tutto, è proprio la presenza di quella voce – sempre meno – baritonale che si apre senza più filtri, abbandonando quasi del tutto immagini, metafore o qualsivoglia barriera tra l’autore e il suo lavoro. Everything I love is on the tableEverything I love is out to sea Cantava Matt dieci anni fa in Don’t Swallow the Cap, ed ora quelle parole risuonano prepotenti mentre ci porta per mano negli angoli più reconditi e oscuri della sua mente. Ci racconta per tutto l’album, come in un flusso di coscienza lungo cinquanta minuti, del suo blocco dello scrittore, della conseguente depressione, della paura di salire sul palco ogni sera, quando a malapena riusciva a parlare. Ci parla di alienazione e di relazioni – la sua relazione – pericolosamente vicine al punto di rottura, quando sembra che l’amore non possa bastare da solo a tenerle in piedi. Varcare completamente la soglia, immergersi totalmente nella sua storia personale, richiede uno sforzo non banale: ci sembra quasi di profanare un diario, introdurci in uno spazio che non è pensato per essere violato, anche se siamo stati gentilmente invitati. Parafrasando Green Gloves, entriamo nei suoi vestiti, nel suo letto, nella sua testa, con i nostri guanti verdi da chirurgo. Eppure, mentre ci immergiamo sempre più a fondo in un racconto fatto di ricordi, nostalgia e voci spezzate, ci accorgiamo di quanto esso sia universale. Le immagini che ci scorrono nelle orecchie sono talmente specifiche da apparire facilmente sostituibili con le nostre esperienze, senza che la storia perda efficacia. Non ci viene imposta una narrazione esterna a cui dobbiamo sottostare e adattarci, ma è la stessa narrazione che prende la forma delle nostre paure, dei nostri dolori e del nostro amore. La sua vita diventa la nostra e le sue esperienze diventano le nostre, in un gioco di specchi mai così riuscito: siamo noi che impacchettiamo i vinili e discutiamo su chi debba tenerseli dopo una separazione in Eucalyptus; siamo noi, in New Order T-Shirt che guardiamo la persona che amiamo aspettarci ai piedi di un grattacielo per andare a bere qualcosa, come se fosse appena uscita da un film degli anni ’70; siamo ancora noi, in Your Mind Is Not Your Friend che cerchiamo di convincerci ad andare avanti, che quello che stiamo provando non sia niente, quando dentro di noi sappiamo che non è così e che stiamo vivendo un momento di breakdown emotivo.  First Two Pages of Frankenstein prende ascolto dopo ascolto la forma di un percorso terapeutico, un viaggio verso la guarigione che, come tutti i viaggi di questo tipo, appare tortuoso e doloroso, ma che alla fine dona i suoi frutti. Possiamo comunque alleggerirne il peso, condividendo il percorso con gli altri. Matt lo fa con noi, attraverso la distruzione quasi totale delle barriere tra autore, opera e pubblico. Ma soprattutto lo fa appoggiandosi, in fase di creazione, alle numerose collaborazioni che troviamo sparse per tutto l’album. I featuring con Sufjan Stevens, Phoebe Bridgers, Taylor Swift, sono deboli comparsate che non hanno un impatto musicale, quanto piuttosto emotivo. In The Alcott è Taylor Swift a “Nationalizzarsi”, come del resto le era accaduto per gli album prodotti sotto la guida di Aaron Dessner; Stevens contribuisce donando un’atmosfera rarefatta, quasi eterea a Once Upon a Poolside, ma è un tocco che si sposa alla perfezione con le caratteristiche della band di Cincinnati; la voce di Phoebe, nelle due tracce firmate anche a suo nome, si accomoda sullo sfondo, senza salire in cattedra come qualche anno fa era accaduto a Lisa Hannigan in So Far So Fast. E allora, anche dalle parole dello stesso Berninger, ci appare palese di come l’apporto al processo creativo sia stato principalmente emotivo: Lei sa di essere brava a definire ciò che odia di sé, ed io ero immerso in una zona di auto-odio e ho pensato: “Beh, d’accordo, è di questo che dovresti scrivere Tutte queste voci si sono rivelate una mano tesa alla band nel momento del bisogno, quando gli stessi membri non sapevano se il percorso avrebbe avuto un seguito o si sarebbe arrestato improvvisamente, schiacciato dal peso delle singole storie. È stato un po’ come raccogliere con gli interessi tutto ciò che i National avevano seminato in questi anni grazie al loro modo di intendere la musica: collaborativo, aperto alle contaminazioni e alle influenze degli altri autori per crescere ed aiutare a crescere, senza perdere la propria natura.

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