phoebe bridgers

Recensione: The National – First Two Pages Of Frankenstein

Matt Berninger è invecchiato. Nel fisico, con gli occhiali da vista a cerchiare quegli occhi azzurri penetranti come una radiografia, la stempiatura che si allunga su una fronte un tempo ricoperta di ricci biondi, l’assenza dell’iconica bottiglia sul palco. Nello spirito, con il tono della voce dimesso, quasi arrendevole; le parole che si trascinano stanche e spezzate nelle inflessioni di corde vocali indebolite dal passare degli anni. Ce ne accorgiamo subito, a partire dalle prime note di Once Upon a Poolside prima traccia dell’ultimo capitolo firmato The National, che mai come stavolta sembra fungere da diario segreto per Matt, un luogo in cui possa riversare le paure e le ansie che lo avevano attanagliato negli ultimi anni e da cui aveva fatto così tanta fatica ad uscire. Sembra quasi inutile ribadirlo, ma come tutti i lavori dei National anche il nono album della band non è d’immediata facilità d’ascolto. Stavolta però, le difficoltà nell’approcciarsi a un lavoro di questo tipo non sono dovute alle sperimentazioni di Sleep Well Beast, con le chitarre distorte e le drum machine ad imprimere una nuova rotta alla band; né tantomeno alle aperture orchestrali e all’introduzione di voci femminili di I Am Easy to Find, l’album più eterogeneo e ambizioso che il gruppo abbia partorito nella sua storia ormai ventennale. O meglio, tutti questi elementi sono condensati nel nuovo lavoro come una sintesi naturale ed equilibrata del percorso svolto finora, ma sono posti sullo sfondo, per fare da contraltare alla voce di Matt, vera protagonista dell’album. E il motivo per cui ci è così difficile accostarci all’album, a farlo nostro del tutto, è proprio la presenza di quella voce – sempre meno – baritonale che si apre senza più filtri, abbandonando quasi del tutto immagini, metafore o qualsivoglia barriera tra l’autore e il suo lavoro. Everything I love is on the tableEverything I love is out to sea Cantava Matt dieci anni fa in Don’t Swallow the Cap, ed ora quelle parole risuonano prepotenti mentre ci porta per mano negli angoli più reconditi e oscuri della sua mente. Ci racconta per tutto l’album, come in un flusso di coscienza lungo cinquanta minuti, del suo blocco dello scrittore, della conseguente depressione, della paura di salire sul palco ogni sera, quando a malapena riusciva a parlare. Ci parla di alienazione e di relazioni – la sua relazione – pericolosamente vicine al punto di rottura, quando sembra che l’amore non possa bastare da solo a tenerle in piedi. Varcare completamente la soglia, immergersi totalmente nella sua storia personale, richiede uno sforzo non banale: ci sembra quasi di profanare un diario, introdurci in uno spazio che non è pensato per essere violato, anche se siamo stati gentilmente invitati. Parafrasando Green Gloves, entriamo nei suoi vestiti, nel suo letto, nella sua testa, con i nostri guanti verdi da chirurgo. Eppure, mentre ci immergiamo sempre più a fondo in un racconto fatto di ricordi, nostalgia e voci spezzate, ci accorgiamo di quanto esso sia universale. Le immagini che ci scorrono nelle orecchie sono talmente specifiche da apparire facilmente sostituibili con le nostre esperienze, senza che la storia perda efficacia. Non ci viene imposta una narrazione esterna a cui dobbiamo sottostare e adattarci, ma è la stessa narrazione che prende la forma delle nostre paure, dei nostri dolori e del nostro amore. La sua vita diventa la nostra e le sue esperienze diventano le nostre, in un gioco di specchi mai così riuscito: siamo noi che impacchettiamo i vinili e discutiamo su chi debba tenerseli dopo una separazione in Eucalyptus; siamo noi, in New Order T-Shirt che guardiamo la persona che amiamo aspettarci ai piedi di un grattacielo per andare a bere qualcosa, come se fosse appena uscita da un film degli anni ’70; siamo ancora noi, in Your Mind Is Not Your Friend che cerchiamo di convincerci ad andare avanti, che quello che stiamo provando non sia niente, quando dentro di noi sappiamo che non è così e che stiamo vivendo un momento di breakdown emotivo.  First Two Pages of Frankenstein prende ascolto dopo ascolto la forma di un percorso terapeutico, un viaggio verso la guarigione che, come tutti i viaggi di questo tipo, appare tortuoso e doloroso, ma che alla fine dona i suoi frutti. Possiamo comunque alleggerirne il peso, condividendo il percorso con gli altri. Matt lo fa con noi, attraverso la distruzione quasi totale delle barriere tra autore, opera e pubblico. Ma soprattutto lo fa appoggiandosi, in fase di creazione, alle numerose collaborazioni che troviamo sparse per tutto l’album. I featuring con Sufjan Stevens, Phoebe Bridgers, Taylor Swift, sono deboli comparsate che non hanno un impatto musicale, quanto piuttosto emotivo. In The Alcott è Taylor Swift a “Nationalizzarsi”, come del resto le era accaduto per gli album prodotti sotto la guida di Aaron Dessner; Stevens contribuisce donando un’atmosfera rarefatta, quasi eterea a Once Upon a Poolside, ma è un tocco che si sposa alla perfezione con le caratteristiche della band di Cincinnati; la voce di Phoebe, nelle due tracce firmate anche a suo nome, si accomoda sullo sfondo, senza salire in cattedra come qualche anno fa era accaduto a Lisa Hannigan in So Far So Fast. E allora, anche dalle parole dello stesso Berninger, ci appare palese di come l’apporto al processo creativo sia stato principalmente emotivo: Lei sa di essere brava a definire ciò che odia di sé, ed io ero immerso in una zona di auto-odio e ho pensato: “Beh, d’accordo, è di questo che dovresti scrivere Tutte queste voci si sono rivelate una mano tesa alla band nel momento del bisogno, quando gli stessi membri non sapevano se il percorso avrebbe avuto un seguito o si sarebbe arrestato improvvisamente, schiacciato dal peso delle singole storie. È stato un po’ come raccogliere con gli interessi tutto ciò che i National avevano seminato in questi anni grazie al loro modo di intendere la musica: collaborativo, aperto alle contaminazioni e alle influenze degli altri autori per crescere ed aiutare a crescere, senza perdere la propria natura.

Recensione: The National – First Two Pages Of Frankenstein Leggi tutto »

Torna in alto