Italian Party 2024 – Un Festival Emo per Tutti
Genesi non programmatica di un’etichetta discografica To Lose La Track è un’etichetta discografica fondata nel 2005. Da quasi vent’anni scova e produce artisti accomunati da una matrice emo declinata nelle più diverse sfumature. Si va dall’emocore dei Fine Before You Came e dei Riviera al folk di Urali, passando per lo screamo degli Shizune. Un ventaglio di progetti accomunato dalla stessa cultura musicale, intesa non solo come l’insieme delle coordinate sonore e storiche delle band di riferimento del genere, ma come attitudine e approccio alla musica stessa, non destinata a rimanere stampata su disco, ma a prendere vita sera dopo sera, in live che rendano le note un mezzo per azzerare la distanza tra le band e il pubblico. Una musica che produca movimento, sudore, contatto tra i corpi. Una musica che riesca ad essere il collante sociale di una piccola comunità di persone. Sembrano esagerazioni, ma è da questi presupposti che nasce To Lose La Track, che prima di diventare ufficialmente un’etichetta vera e propria è stata per diversi anni un progetto di aggregazione, nato dalla volontà di Luca Benni (il fondatore dell’etichetta) di andarsene in giro per l’Italia a scoprire band e artisti e radunarli tutti insieme su un palco. L’obiettivo era quello di riunire “gruppi che suonano sotto al palco, in mezzo alla gente, e non sopra, di ragazzi intraprendenti che organizzano concerti chiamando tutto quello che c’era di meglio e poco conosciuto in Italia in quel periodo, che stampano dischi, spille e magliette con grafiche fichissime, di pubblico che si muove e fa chilometri per andare ai concerti”. Prima di To Lose La Track nasce quindi l’Italian Party, oggi considerato il festival di riferimento emo in Italia. La prima edizione si tiene nel 2003, prima ancora che una vera e propria scena italiana esistesse. Umbertide, paese natale di Luca Benni e sede dell’Italian Party da più di vent’anni, diventa l’epicentro della scena emo, un posto raggiunto ogni anno da persone sparse in tutta Italia che salgono in macchina o in treno per finire dritti nella Valle del Tevere, in un paesino di circa sedicimila abitanti che a fine luglio (i giorni del festival) sembrerebbe una città fantasma, se non si popolasse improvvisamente di maglie oversize con lunghe scritte, i nomi o i testi delle band che ormai sono la storia dell’emo italiano stampate sopra come manifesti fondativi del genere. È a Umbertide che prendono forma le band emergenti, altrimenti abituate a suonare in garage polverosi o in feste di paese che poco o niente hanno a che fare con la loro poetica; lì che viene presa la decisione di produrre con un certo rigore i loro primi album, finalmente emancipati dall’elettrostatica di musicassette autoprodotte; lì che i Giardini di Mirò e i Fine Before You Came si impongono come capisaldi della scena, capaci di influenzare il suono delle band che verranno. È lì che nascono le band che verranno, figlie delle collaborazioni tra chi sul palco ci suona o da chi ci vorrebbe suonare, una staffetta generazionale generata dalla voglia di perpetuare una certa cultura attraverso la musica. Effetto della veduta d’insieme sulla Valle del Tevere È il primo anno che partecipo all’Italian Party, giunto alla sua ventiduesima edizione. È anche il primo anno in cui il festival non si tiene a Umbertide, ma a Montone, comune adiacente situato a cinquecento metri dal livello del mare e che per questo guarda Umbertide dall’alto. Una tradizione ventennale spazzata via da “UmBEERtide” il festival della birra artigianale organizzato nello stesso fine settimana, e che non credo abbia ottenuto il successo sperato. A Montone gli abitanti sono ancora meno – circa 1500 – e per chi non è arrivato in auto deve essere stato complicato trovare un modo per fare la spola tra i due comuni. Se la scelta di spostare la location ha creato problemi logistici, il festival ne ha sicuramente guadagnato in estetica. Montone è il tipico paesino umbro situato sul cucuzzolo di una collina. Le mura che ne delimitano il confine come le cinta in pietra di un enorme castello, la verticalità delle casette dai tetti spioventi affacciate sulle piazzette del Paese, sui bar e i panifici che accolgono un numero inaspettato di persone, la vista panoramica che offre agli occhi una valle verde e rigogliosa. Tutto questo rende anche l’attesa dei concerti piacevole, dal passeggiare per le viuzze inclinate quasi di quarantacinque gradi al girare per gli stand con una birra in mano, in cerca di una maglietta o una tote bag da acquistare. I palchi del festival sono due: il main stage è situato sul campetto all’aperto di basket comunale, con il palco sotto uno dei due canestri e davanti a una rete da calcio a cinque. La sensazione è di trovarsi a una festa liceale, con le coppiette o gli stanchi stesi sui prati ai lati del campo che fanno da spalti immaginari. Si può assistere ai concerti da ogni angolo del palco, anche dal retro. L’acustica è ottima e le band ben visibili. Il secondo palco è incassato tra le tre mura di una torretta in pietra costruita centinaia di anni fa, nel punto più alto di Montone. È una delle location più suggestive in cui sia mai stato, ma anche, forse, la più limitante: il suono è attutito dalla densità dei corpi sotto il palco, non libero di propagarsi ai lati della struttura, cintata dalle mura in pietra; la visibilità è ridotta subito dopo le prime file, e la terra è coperta di piccoli sassolini ma anche di massi appuntiti su cui è facile cadere, considerato il pogo e lo stage diving a ogni concerto. Ogni band suona in media per mezz’ora, e i concerti si alternano tra il main stage e il palco secondario senza pause tra una performance e l’altra. Questo rende praticamente impossibile non perdersi almeno cinque minuti di una delle band che suona prima o dopo il gruppo a cui decidiamo di dare la priorità: anche in un festival così piccolo e con pochi palchi è
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