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Quella volta che (non) ho visto gli Arctic Monkeys a Milano

Ben 65.000 persone erano presenti al concerto degli Arctic Monkeys a Milano, più precisamente all’Ippodromo SNAI La Maura nel contesto degli I-Days Coca-Cola 2023. Sì, avete letto bene: sessantacinquemila. Io ho fatto parte di quel numero, ma giusto per due motivi: Un mio amico aveva un biglietto in più e mi dispiaceva non sfruttare l’occasione per rivedersi dopo tanto tempo; Tra i gruppi di apertura c’erano anche gli Hives, forti e carismatici, conosciuti solo grazie alle ore passate a giocare al videogioco Gran Turismo 4 per PlayStation 2. Era dal 2018 che la band britannica non veniva a suonare in Italia e, nonostante siano tra i miei ascolti abituali durante l’anno, non ho avuto l’impulso e il desiderio di comprare il biglietto. Perché il rischio era quello di sentire i grandi successi piuttosto che The Car, il loro ultimo album in studio. E, soprattutto, per la mole di fan e non a popolare un grande spicchio di prato in una calda estate milanese. Insomma, il gioco non valeva candela e, alla fine, è stato davvero così? Sì e no, ma proprio per rispondere a questa domanda più approfonditamente devo dividere in due questo articolo: la performance in sé degli Arctic Monkeys da una parte, il contesto e tutti gli argomenti relativi dall’altro. Una sorta di gelato Maxibon, amato per la parte croccante di cioccolato e snobbato per il restante biscotto. Ma quanto spaccano gli Hives? Prima di tutto, partiamo con un plauso agli Hives, probabilmente sconosciuti da praticamente tutta la folla che, per compensare, li ha snobbati. Non sono una band svedese qualunque: sono attivi fin dagli anni Novanta, hanno infiammato la scena garage rock fino agli anni Duemila e sono sempre rimasti sulla cresta dell’onda. Non capita tutti i giorni avere la possibilità di assistere alla loro grande carica sul palco, quando vestono smoking decorati con le saette bianche sotto il sole cocente, e lo straordinario coinvolgimento da parte di Howlin’ Pelle Almqvist, il frontman e cantante degli Hives. Non credo di mai essermi divertito così tanto. Walk Idiot Walk, Tick Tick Boom e Hate to Say I Told You, più gli ultimi singoli e diversi estratti da Lex Hives: uno spettacolo sublime, capace di trasmettere scariche di energia travolgenti, nonostante il caldo soffocante e l’ignoranza dei presenti. Evviva la solita minestra Alle 21:40, puntualissimi, prendono in mano la scena i protagonisti della serata: gli Arctic Monkeys. Partenza a tutta velocità con Brianstorm a scatenare subito la folla, seguita da Snap Out Of It, Don’t Sit Down ‘Cause I’ve Moved Your Chair e Crying Lightning. Loro sono in grande forma, lasciano parlare la musica – come giusto che sia – piuttosto di spezzare il ritmo con qualche discorso rivolto al pubblico e si divertono. Tuttavia, l’impressione è quella che nel corso del concerto ci sarà poco spazio per i lavori recenti e che la scaletta sarà una sorta di best of, giusto per accontentare i fan. E in parte ci vedo giusto. Infatti, AM non può mancare e compaiono le varie Why’d You Only Call Me When You’re High?, Arabella e Do I Wanna Know?, così come Fluorescent Adolescent e 505 (da Favourite Worst Nightmare). Da Tranquility Base Hotel & Casino sbuca fuori solo Four Out Of Five (tra l’altro poco convincente dal vivo), mentre da The Car compare I Ain’t Quite Where I Think I Am solamente a metà esibizione, come per dire: «Ehi, c’è anche l’album nuovo!». Tra l’altro, il momento migliore è verso la fine, quando si accende la grossa palla da discoteca per There’d Better Be A Mirrorball. Indimenticabile il cosiddetto bis, che parte con Sculptures of Anything Goes e prosegue a mille con I Bet You Look Good on the Dancefloor e l’intramontabile R U Mine?, che sembra terminare il concerto e, invece, riparte un nuovo giro di ritornello. Ah, davvero è uscito un nuovo album? Nel complesso, gli Arctic Monkeys dimostrano di essere dei mostri da palco, perfetti nell’esecuzione e senza troppi fronzoli, come ci si aspetta da un concerto di puro rock. Però, Alex Turner è il vero mattatore, lasciando in un antro Jamie Cook, Matt Helders e Nick O’Malley: ci sta, la sua presenza scenica è teatrale e carismatica, tanto da far bagnare le ragazze presenti che, ad un certo punto, urlano all’unisono il suo nome. Rimane, invece, la sensazione della trasformazione degli Arctic Monkeys – nel contesto dei live – a pura band da reunion, rivolta a trentenni nostalgici e ai giovanissimi che non hanno mai vissuto la loro epoca d’oro. The Car non trova un vero spazio nel megaconcerto e chi, come me, sperava in una netta predominanza dell’ultimo LP rimane deluso: forse meglio così, perché un ambiente più piccolo e intimo è molto più adatto all’ascolto del nuovo percorso intrapreso dal gruppo. Il trionfo dell’era digitale Tocca ora parlare di tutto il resto, a cominciare dal comparto acustico. Non riuscivo a distinguere perfettamente la voce di Alex Turner, troppo bassa rispetto al volume generale della musica. Da un festival di grosse dimensioni non ci si aspetta questa superficialità a livello tecnico, aggiungendo che anche la linea di basso era notevolmente sovrastata dalla batteria e, di conseguenza, non è stato possibile godersi pienamente tutte le canzoni. Non credo che questo dipendesse dalla mia posizione nel megaprato dell’ippodromo perché mi trovavo letteralmente nel fondo, dietro alla seconda linea di impianto audio. Parliamo proprio di quest’ultimo punto: non sono mai riuscito a vedere il palco e sono stato costretto ad accontentarmi dei due schermi laterali per capire cosa stesse succedendo. L’unica soluzione era quella di prendere in mano il portafoglio e lasciare giù più soldi per accapparsi il pit da oltre 75 euro, invece dei 60 richiesti per le file dietro, ma sempre con il rischio di non vedere nulla se non si arrivava per primi sottopalco. Proprio per evitare queste situazioni snobbo questo tipo di super concerti, ma la colpa della visuale è (in questo caso) anche dei tantissimi smartphone all’aria, fissi a riprendere il tutto. Posso capire il

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L’energia instancabile dei Florence and The Machine

But I hear the music, I feel the beat, and for a moment, when I’m dancing, I’m free. Una divinità scesa in terra. Una fata che qualsiasi di noi può facilmente immaginarsi in un mondo di Dungeons & Dragons. Un usignolo che tiene a bada una platea di più di 30.000 persone. Questo e molto altro è stato il concerto di Florence Welch, portavoce dei Florence and the Machine che hanno aperto il festival degli I-days all’ippodromo Snai San Siro di Milano, inaugurando così la mia stagione estiva di concerti. Non si riesce a restare estranei allo spettacolo dei Florence and the Machine, ci si resta invischiati, irretiti in una ragnatela composta da immagini e musica. Anche le grandi dimensioni del luogo, la mancanza d’intimità non spostano l’attenzione, non distraggono tanta e tale è la capacità seduttiva ed attrattiva della band e della frontwoman. Il loro concerto è un rituale che ferma il tempo e celebra la voce e la presenza di un soggetto artistico che prende vita per poi tornarsene nella sua tela. Quando Florence Welch sale sul palco degli I-days due timidi arcobaleni si mostrano prima dell’inizio dello spettacolo per poi lasciare spazio ad uno spicchio di luna sopra il poco, i pianeti si allineano: è il suo concerto, è il suo palco, è il suo pubblico. Lei fa ciò che vuole con la sua grazia e la sua voce. Non le si può rimproverare nulla (forse solo qualche balletto un po’ troppo studiato a tavolino e dall’effetto poco spontaneo) anche perché ha un pubblico fedelissimo, eterogeneo e pronto a celebrare un rito catartico durante il quale Welch non si risparmia; la sua voce è impeccabile, la sua band è precisa. Ci sono artisti che si adattano al pubblico e altri che il pubblico lo fanno entrare nel proprio mondo. Welch appartiene alla seconda categoria ed è una fuoriclasse. Ma andiamo con ordine. Una platea già scaldata a dovere dai gruppi di supporto (dalle sonorità R&B ed elettroniche dei Sudan Archives e dal soul indie rock dei Foals), si è lasciata trasportare dalla cantante inglese in una sorta di mondo ultraterreno, in una liturgia laica in cui l’officiante è proprio lei, che sa come stare sul palco e conquistare il pubblico, anzi rapirlo e portalo nei diversi mondi musicali, emotivi e sonori che, in compagnia della band, solo lei sa creare. Anche la scenografia lo ha testimoniato: piedi nudi sul palco, un vestito “svolazzante” che è diventata parte scenica dello spettacolo, fiori e ghirlande shakespeariani, capelli rossi al vento e sullo sfondo un tavolo (forse un altare) con dei candelabri e delle croci ricoperte da degli stracci bianchi hanno ha creato un’atmosfera cupa e mistica. Una donna tra l’umano e il divino, non c’è dubbio (così come il caldo umido che ha fatto da sfondo all’intera serata d’altronde). Ogni mio dubbio è stato però chiarito dalla canzone di apertura del concerto Heaven is here. Il concerto ha finalmente avuto inizio e i fan hanno acclamato la loro dea come se tutti fossero pronti a sacrificarsi per lei, come d’altronde confermato dalle parole che vengono urlate in coro: Oh bring your salt, bring your cigarette. Draw me a circle and I’ll protect. Heaven is here if you want it  Un rituale ha dato inizio alle danze (letteralmente) e anche io credo di aver versato la mia personale dose di patto di sangue grazie alla moltitudine di zanzare presenti con noi quella sera. Il tour Dance Fever ha così preso il via facendo percepire subito tutta l’energia e la carica dell’intera band grazie all’inno femminista King, alla potenza di Ship to Wreck e alla celebrazione alla vita Free che hanno fatto smuovere tutta la platea; tutto è diventato ancora più chiaro con Dogs Days are Over dove, il rituale riproposto ad ogni concerto di Florence, è stato ancora più potente. Dopo anni di distanze e assenze, di lontananze dettate dalla pandemia, la cantante ha invitato tutti ad abbassare i telefoni e ad abbracciarsi più forte che mai, manifestando il proprio amore in un salto collettivo in corrispondenza degli ultimi ritornelli della canzone: when I say run, I need everyone to jump high as they can! Florence, instancabile, ha percorso il palco cantando, sussurrando, parlando con il pubblico che ha risposto bene alle sue sollecitazioni e richieste. È scesa nel pit cercando coraggiosamente il contatto fisico con il suo pubblico e restando lì per lungo tempo ad accarezzare e farsi accarezzare. All’improvviso ci si è ritrovati catapultati in un mondo simil Midsommar che senza neanche farlo apposta ha coinciso con l’anniversario della celebrazione del solstizio d’estate. Come non approfittarne per regalare al pubblico una versione della magnifica June. Immancabili poi le versioni di You’ve got the Love, Shake It out, Cosmic Love e una versione totalmente inaspettata di Never Let me Go dopo dieci anni di assenza dai palchi. La finale Rabbit Heart (Raise it Up) ha chiuso lo spettacolo permettendo al pubblico di liberare le ultime energie rimaste e di scaricare tutti i propri cattivi pensieri e preoccupazioni godendosi a pieno il momento. Che dire quindi. La Welch, sempre in lotta con le sue debolezze nei testi della sua musica, ha esorcizzato il tutto con una personalità magnetica e con una voce potente, virtuosa, senza interruzioni e senza perdere per un attimo la forza in quel canto quasi liberatorio. Sempre in bilico tra oscurità e luce, tra drammatico ma al tempo stesso romantico e intimista che tocca l’anima e il cuore, rimane una delle poche persone in grado di farmi commuovere. Florence, you’re a gift. Francesca Muscio

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