Fabrique Milano

James Blake al Fabrique: back to the origins

James Blake @ Fabrique, foto di Maria Laura Arturi Riunione infinita al lavoro, sciopero Atm (per chi non è di Milano, sciopero dell’Azienda dei Trasporti Milanesi che, negli ultimi anni, si verifica, tendenzialmente, ogni due settimane) e acquazzone come dio comanda. Tutte le mie volontà di arrivare al concerto ad un orario decente falliscono miseramente. Allo stesso modo, anche le mie aspettative vengono ribaltate totalmente: convinta che avrei pianto dall’inizio alla fine del concerto, mi ritrovo fin da subito in un dj suonato circondato da luci al neon e fumi sottopalco. È impossibile restare fermi. Sul palco, oltre ad un affascinante James Blake alle tastiere, un set composto solamente da un batterista e un polistrumentista che alterna tastiere e diavolerie elettroniche con le chitarre. Ognuno suona su ritmi, basi, volumi differenti, c’è chi accelera improvvisamente, chi rallenta, chi crea caos, chi crea ordine. Sembra impossibile creare un live simile, ma in tre riproducono un muro sonoro devastante. Il 18 settembre 2023 al Fabrique di Milano rappresenta la prima data del tour europeo di Playing robots into Heaven, sesto album del cantante britannico che ritorna alle sue origini elettroniche. La maggior parte del materiale è frutto di schizzi su sintetizzatori modulari che il cantante portava in tournée, facendo jam session per passare le ore tra un concerto e l’altro. Alcune di queste registrazioni si sono trasformate in strumenti per i suoi DJ set e alla fine sono diventate le fondamenta di brani adatti al dancefloor. Blake strizza l’occhio alle sue radici dubstep e intreccia elementi di techno, R&B, house e ambient, mantenendo la sua distintiva e gelida malinconia come file rouge e accompagnando il tutto dalla sua voce soul. Il risultato è un’evoluzione ispirata del suo sound, con Blake che di tanto in tanto guarda nello specchietto retrovisore mentre si muove in una nuova direzione. La scaletta del concerto è infatti un susseguirsi di improvvisazioni elettroniche e di composizioni del repertorio di Blake di una qualità e raffinatezza impressionanti. Preoccupato di fare brutta figura e di mandare tutto all’aria (“we can all fuck this up”, ha detto moderatamente titubante), James Blake ci propone suoni da club e echi dub, energia techno e beat hip hop che si tessono attraverso i nuovi brani come Asking to break, Loading, Fall Back e Tell me. Elemento essenziale del concerto è il ritmo che a volte ti martella con la cassa dritta mentre in altre occasioni fa fatica a prendere corpo, lasciando un senso d’incompletezza. Anche la platea sembra un po’ frastornata, sempre in attesa di un liberatorio momento a cui affidarsi con certezza e tranquillità per viaggiare su dei comodi vagoni. Quando però la direzione si fa chiara e prende per mano la composizione, che sia di elettronica pura, sia che sia pop, tutto diventa magico e accattivante. Fire the editor del nuovo album è una carezza ma dal vivo si trasforma sul finale in un lungo strumentale con la batteria elettronica che colpisce nel petto. L’ultimo album è però anche la cornice della riproposizione dei pezzi storici dell’artista, a partire da Limit to your Love, la ballad onirica spezzata dal silenzio e da echi malinconici a Big Hammer e Hummingbird. Giocandosela a parimerito con Justin Vernon dei Bon Iver, Blake è l’artista della malinconia, il più infido e ricco dei sentimenti umani, sentimento rannicchiato al sicuro nel suo sofferto, pieno e rotto timbro vocale. Ovviamente, uno dei miei sentimenti dolorosamente preferiti. «Thank you for being the first to hear the new songs, live. Thank you for coming» dice Blake al termine del concerto, in cui non ha quasi mai parlato con il pubblico, ma si è rivolto a ogni persona presente con la sua musica, il suo linguaggio. Un live che verso il finale propone Godspeed, cover di Frank Ocean per chiudere poi con il brano Modern Soul del 2016 che si ricollega agilmente con i suoni del nuovo album, coerente con il resto della scaletta. Un concerto illuminante, e spiazzante al tempo stesso, assolutamente da godersi che, a mio parere, funzionava di più quando il groove alzava i toni ma perdeva un po’ di smalto quando si addentrava nella dimensione più intimistica. Matteo Russo

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Il fiasco dei NxWorries (Anderson .Paak e Knxwledge) al Fabrique di Milano

Andiamo dritti al punto: quello dei NxWorries – il superduo formato da Anderson .Paak e dal produttore Knxwledge – al Fabrique di Milano è stato il concerto più brutto a cui abbia mai assistito negli ultimi dieci anni. Non scherzo mica, credetemi. Nella mia vita ho visto tonnellate di esibizioni: dalla più becera delle cover band degli 883 agli artisti più apprezzati del globo. Un curriculum che farebbe rabbrividire perfino quel sapientone di Red Ronnie. Tutto esaurito e alte aspettative Prima di partire, riavvolgiamo il nastro a gennaio. Il nuovo anno è perfetto per fissare nuovi obiettivi e, personalmente, ho deciso di vedere finalmente dal vivo Anderson .Paak in qualsiasi tipo di forma. Ed eccola lì la possibilità: 25 maggio a Milano con il compagno di merende Knxwledge, tra l’altro come prima tappa del tour europeo del loro fichissimo progetto NxWorries. Lancio l’invito ad una mia amica e prendiamo i biglietti senza pensarci. Sgancio 83,44 euro a quei falliti di TicketOne – si scherza! Ma sempre siano maledette le vostre commissioni –, segno sul calendario l’evento da non perdere ed è praticamente fatta. Due giorni prima, però, ricevo un pacco clamoroso dalla mia accompagnatrice, sicché mi trasformo in un lupo solitario. Giovedì termino di lavorare e scatto da casa alle 19.15, tempo di parcheggiare l’auto alle 20:00 proprio per l’inizio previsto del DJ set di Knxwledge. Vedo una fila chilometrica all’entrata e mi rendo conto solo in quel momento dell’effettivo sold out. Niente paura, in pochi minuti sono dentro: sebbene non ho cenato, sono bello carico perché trovo spazio a pochi passi dal palco. Ritardi, attese e bestemmie Ma eccola l’inchiappettata. Rimaniamo in piedi, con lo sguardo perso sul vuoto, fino a quando Knxwledge compare svogliato alla consolle, posizionata in un soppalco rivestito da tre grandi schermi a LED, alle ore 21:00. L’inizio è abbastanza scialbo, tant’è che nessuno nei miei paraggi accenna un minimo movimento.La scossa arriva con Daydreamin, singolo uscito una settimana fa e il cui videoclip di GTA V appare negli schermi, ma di Anderson .Paak nessuna traccia. Il burlone esce allo scoperto al fianco di Knxwledge, tra l’altro con un vistoso copricapo peloso, e svela di aver cantato nascosto dal pubblico. Qui inizia, dico, il vero concerto, ma capisco poco dopo di essere arrivato troppo frettolosamente a questo presupposto. Infatti, Anderson .Paak esegue un paio di canzoni dall’album d’esordio del duo, Yes Lawd!, e ritorna nel dietro le quinte, per lasciare solo soletto Knxwledge ai “piatti”. Una mossa che ammoscia l’atmosfera dopo la breve e grintosa presenza del suo teammate, tant’è che la folla ritorna composta. Così funziona: Anderson .Paak entra, canta qualche canzone, abbandona il palco, Knxwledge mette qualche pezzo e così in loop. Via i microfoni Dopo appena un’ora, i due salutano il pubblico di Milano e si ritirano nelle loro stanze e letteralmente tutti rimaniamo confusi. Le luci, a mano a mano, si accendono, i tecnici procedono a rimuovere addirittura l’asta del microfono, ma la gente non si sposta: iniziano le prime urla e, da qualcuno, anche qualche fischio. Io, invece, sono alla ricerca dei testicoli che sono caduti da qualche parte… Il clima, per non dire pesante, è parecchio teso. Knxwledge se ne accorge e riappare alla consolle, ma solamente per rovinare ancor di più la serata con Wonderwall degli Oasis – già brutta di suo – su un’orrenda base hip hop. Anderson .Paak prova a metterci la pezza con un’ultima canzone, ma nemmeno i suoi pettorali sudati e il suo sorriso risolleva la situazione. “We love Milano”, ciao e arrivederci, con tanto di pedata sul sedere. Un ibrido che non convince Tralasciando il tentativo di presentarmi come un simpaticone con il racconto qui sopra, perché questo concerto è totalmente da buttare nel cestino? Innanzitutto, l’ibrido tra DJ set e live non ha convinto fin dall’inizio. Di certo ero uno dei pochi che sapeva di andare ad assistere a un concerto hip hop nel vero senso del termine, quando invece la maggioranza del pubblico era lì solo per Anderson .Paak, con annesse aspettative da live band e musica retrò. Tuttavia, le scelte proposte da Knxwledge non hanno funzionato: i passaggi tra un brano e l’altro sono risultati imprecisi e confusionari, poco in sintonia rispetto alle potenti entrate in scena di Anderson .Paak. Per fare un veloce paragone, sembrava di stare sulle montagne russe: Anderson .Paak regalava una forte scarica di adrenalina sul palco, mentre Knxwledge da solo in consolle abbassava notevolmente i toni con il suo repertorio personale. Avrei accettato e capito le due cose separate come da copione – nella mail di D’Alessandro e Galli era ben specificato DJ set di Knxwledge alle 20:00 e concerto alle 21.00 – o la stessa linea d’onda (di ritmo, di sound, di proposte) tra DJ set e live, ma è stato un completo fiasco. “È un duro lavoro, ma qualcuno deve pur farlo” Infine, la durata è stata imbarazzante rispetto alla quantità di materiale prodotto. Se togliamo dal concerto i momenti effettivi in cui Knxwledge è rimasto da solo sul palco, le chiacchierate di Anderson .Paak con il pubblico e il “bis”, posso confermare senza troppi problemi di aver sentito solo 30 minuti scarsi del pacchetto NxWorries. Attenzione, non sto dicendo che queste esibizioni devono, per forza di cose, durare un’eternità per divertirsi a mille: con i Superorganism, al Magnolia di Milano nel lontano 2018, rimasi completamente estasiato e felice per uno spettacolo di, appunto, mezz’ora, ma perché avevano anche esaurito tutte le loro canzoni e avevano regalato uno show unico. Qui, invece, il problema è stata una certa frettolosità e svogliatezza da parte sia di Knxwledge sia di Anderson .Paak nell’esibirsi, come se avessero altri impegni in agenda: non la mentalità che ci si aspetta di fronte a un pubblico da tutto esaurito. Anche il cosiddetto “bis” è arrivato dopo una decina di minuti di nulla cosmico, parso più un rattoppo piuttosto che una cosa nata spontanea dai due. Quello che (non) ci resta Non nascondo che ci sono stati dei momenti

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