Tra le uscite musicali di questa settimana, forse non vi salterà subito all’occhio l’album che vi voglio presentare oggi. Potreste pensare che sia uno di quei dischi destinati a passare inosservati, oscurati da nomi più famosi e attesi, non ci sarebbe nulla di male.
In questo weekend ha visto release in campo italiano e internazionale, con alcuni nomi come Lil Uzi Vert, Nothing But Thieves, il frontman dei Fontaines DC Grain Chatten e singoli di artisti del calibro come James Blake e Olivia Rodrigo – tanto per citarne un paio – la domanda “Ma chi diamine è ‘sta The Japanese House?” potrebbe risultare lecita.
In verità – è la stessa che feci io al mio amico Luca quando mi parlò entusiasta di Good At Falling, il suo primo album. E come spesso accade, dopo poco più di un anno mi sono dovuto ricredere.
Era infatti quel 2020, quel tanto maledetto anno segnato dalla pandemia, dalle restrizioni e dalla noia di stare in casa, che tramite la colonna sonora del videogioco calcistico PES 2021 scoprii una canzone che sarebbe previsto diventata una mia piccola ossessione: You Seemed So Happy.
Oggi si sa chi si nasconde dietro il nome artistico di The Japanese House: una ragazza londinese di 27 anni, con un taglio a caschetto biondo, di nome Amber Bain.
Ma quando nel 2015 gli ascoltatori di BBC Radio 1 sentirono Zane Lowe assegnare il suo premio Hottest Record of the Week a Still, singolo tratto dal primo EP intitolato Clean, le informazioni erano scarse.
La voce un po’ androgina e il nome enigmatico alimentarono le speculazioni: era un uomo o una donna? Era forse un side project ben nascosto di Matty Healy dei 1975, visto che il singolo era sotto l’etichetta Dirty Hit?
Il mistero della casa giapponese
Amber Bain non ha mai voluto fare della sua identità un caso di stato: la sua scelta di rimanere anonima era per mettere in primo piano solo la sua musica, una voce apparentemente non identificabile e distintiva, ondeggiante in un mare di melodie che avevano catturato l’attenzione dei più appassionati e curiosi.
Altrettanto curiosa la motivazione dietro alla scelta del suo pseudonimo. Da piccola, Amber andava spesso in vacanza con la sua famiglia a Devon, contea situata sulla penisola della Cornovaglia, e soggiornava per una settimana in quella che era stata la casa dell’attrice Kate Winslet.
Un edificio dallo stile, sia interno che esterno, tipicamente giapponese, che fu chiamato appunto “the japanese house” e che rappresenta per Bain un ricordo indimenticabile della sua infanzia (tra l’altro, la casa è prenotabile per un viaggio di 7 giorni su Airbnb, qualora voleste fare la stessa esperienza).
Emotion is (the) key
Facciamo un salto indietro e torniamo dal 2023 al 2020, precisamente a ottobre quando il sottoscritto si era già innamorato, dopo poche settimane dal primo ascolto, di You Seemed So Happy.
Una traccia per la verità molto diversa dal resto dell’album, perché ha un ritmo diverso, strumenti diversi (è infatti l’unica acustica di tutto il disco), ma conserva le stesse emozioni delle altre dodici canzoni: affetti, nostalgia, ricordi e soprattutto amore.
Ecco, a proposito di quest’ultimo aspetto, dovete sapere che chi scrive non è un grande fan delle classiche canzoni d’amore che vanno di moda.
Lo ritengo un argomento molto comune e dunque “saturo” di idee, ed è difficile trovare nella grande mischia un disco che faccia davvero esclamare “wow”.
Così, un po’ con i piedi di piombo, mi cimento nell’ascolto degli altri singoli dell’album come Maybe You’re the Reason, We Talk All The Time e Follow My Girl.
Tuttavia, non ho quella spinta che mi incoraggi ad ascoltare tutto l’album: per circa due anni le uniche canzoni che ascolto sono le quattro sopracitate, fino a quando all’inizio di quest’anno decido di provare ad ascoltarlo dall’inizio alla fine.
Ciò che ho provato è stato difficile da spiegare: è stato come quando si accantona una cotta e si lascia il fuoco dentro di sé spegnersi, ma per un motivo sconosciuto riesplode dopo tempo. Quei singoli che sembravano frammenti sparsi senza una meta, acquisiscono dal nulla un senso. Per me era diventato facilissimo immergermi nell’ascolto dell’album e captare ogni emozione possibile.
You were floating like a lilo
With your eyes closed, going where the tide goes
Caught in flux, you drifted ‘til you hit the sides
Hold my breath another minute
I can keep my head, there’s nothing in it
I’m a patient wave (i’m a patient wave)
And it’s an easy ride
Il ritornello di Lilo, la canzone che più mi è rimasta a cuore dopo aver riscoperto l’album
Le sensazioni che provo sono molto diverse rispetto anche solo a un anno prima: quel sound totalmente elettronico che regna sovrano in tutto il disco passa da essere difficilmente digeribile a diventare quasi la mia casa.
Ovviamente non è l’album perfetto: c’è qualche piccola parte dell’album che rimane un po’ sottotono, ma la simbiosi scoppiata tra i sentimenti post-breakup di Amber e le note elettroniche lo ha trasformato dentro di me da un album qualunque a un piccolo gioiellino.
Il ciclo della vita
Nascere, crescere, riprodursi, morire: queste quattro parole sono il riassunto del ciclo vitale dell’essere umano, che ogni bambino delle elementari conosce a memoria. Queste parole si fissano nel cervello e accompagnano ogni persona nel corso della propria vita, quasi come un mantra.
Perché vi parlo del ciclo della vita? Perché anche nella cover di In The End It Always Does c’è un ciclo (seppur la forma e la grafica siano decisamente discutibili), ed è quello emotivo-relazionale.
Infatti, da Touching Yourself fino a One for sorrow, two for Joni Jones si susseguono temi come il sexting, il poliamore, ma anche separazione, rottura, crescita, speranza, dolore, nostalgia.
Questi ultimi sei sono sentimenti che, nel bene o nel male, fanno parte del percorso emotivo di ognuno di noi.
La stessa Touching Yourself è un po’ un ciclo nel ciclo: la canzone parte nel pieno delle “pulsazioni amorose”, così descritte dall’artista, con la strofa immediatamente dopo in cui quest’ultima inizia a sentire enormemente la mancanza dell’altra metà. Sentimenti contrastanti, opposti, che però se si ascolta la canzone nel suo intero sembrano incredibilmente sincronizzati all’unisono.
Picture your face
I wanna touch you, but you’re too far away
And when you call me, I’m all over the place now
You think it’s different, but it’s always the same
I wanna touch you, butKnow I shouldn’t need it, but I want affection
Know I shouldn’t want it, but I need attention
Know I shouldn’t say it, but I had to mention
It makes me wanna die, every time I have to
Il chorus e il refrain sono immediatamente successivi, ma emergono sentimenti opposti: desiderio sessuale e frustazione nell’impossibilità di realizzarlo
Un altro esempio calzante è Sad To Breathe: un brano di ritmo lento, composto anni fa poco dopo la separazione con l’ex Marika Hackman e concepito come una canzone post-separazione. Questa viene ripresa a distanza di anni dalla stessa Bain che, tramite uno stacco netto, trasforma la seconda parte della canzone aumentando il ritmo, gli strumenti e rovesciandone il mood da una matrice negativa e pessimistica a una ottimistica e speranzosa.
‘Cause you’re right and I’m tryin’
To change myself, but it’s tirin’
And I go to bed and I’m cryin’
‘Cause it’s sad to breathe the air when you’re not thereA love that didn’t last
Do I chase the train you’re ridin’ on
Or sit back and wait as it goes past?
Il chorus nella prima parte e il bridge della seconda, contrapposti l’uno con l’altro
Ci sarebbero altre di cui parlare. Potrei parlare di Boyhood, il primo singolo rilasciato, premiato all’uscita da BBC Radio 1 come Hottest Record of the Week (vi ricorda qualcosa?) e che aveva già dato un input abbastanza esplicito dello stile musicale di In The End It Always Does, ma preferisco parlare della mia canzone preferita di tutto l’album: Sunshine Baby.
Questa canzone potrebbe probabilmente essere il miglior singolo rilasciato dall’inizio della sua carriera: ha il ritmo giusto, gli strumenti giusti, l’overlap tra le voci di Amber Bain e Matty Healy è praticamente perfetto e la canzone scorre che è una meraviglia. È uscita da un mese abbondante e non mi sono mai realmente stancato di sentirla.
Piatto ricco, mi ci ficco?
Non serve neanche ascoltarlo, ma basta leggere la tracklist dell’album per cogliere la prima differenza con Good At Falling. Parliamo di un disco di budget sicuramente maggiore, che include featuring di lusso tra cui Katie Gavin delle MUNA nelle canzoni “Morning Pages” e “One for sorrow, two for Joni Jones”, Matty Healy dei 1975 in “Sunshine Baby” e anche Charli XCX in “Friends”.
Da quest’ultimo brano vorrei partire per affrontare uno degli elementi di cambiamento all’interno di In The End It Always Does: infatti Friends è l’unica canzone che integra al suono tradizionale elementi di tipo elettronico. Il resto dell’album infatti verte su un suono più acustico, con chitarre e batterie a farne da padrone, ma anche la presenza di trombe e sassofoni come in Sunshine Baby.
La scelta di includere pochissimi di quegli elementi dream pop che tanto avevano caratterizzato il primo album mi ha onestamente spiazzato all’inizio. Io sono indubbiamente a favore del non continuare a proporre sempre lo stesso identico sound, essendo per me la musica qualcosa che va a braccetto con la sperimentazione e l’evoluzione della propria formula sonora, però una scelta così netta ha sicuramente portato degli svantaggi.
Infatti, l’album verso la fine tende ad avere dei momenti morti. Canzoni strutturalmente uguali, con poca variazione, stesso tono di voce e di mood, che provocano un po’ quella piccola voglia di voler skippare e passare alle tracce successive.
Il che, onestamente, è un peccato. È un peccato perché Amber Bain con i sintetizzatori e le tastiere ci sa fare eccome, sa come stupire, sa come emozionare. Quindi, perché limitare il proprio punto forte a una sola traccia su tredici dell’album? Perché non mescolare a una giusta scelta di cambiamento della propria sonorità qualche melodia della casa?
E, per quanto si possa dire, la presenza di ottimi musicisti come featuring non rende un album spettacolare già in partenza. Anzi, a volte sembra quasi che siano stati inseriti per dare più lustro al disco, senza però integrarsi perfettamente con il suo stile.
L’aspetto sorprendente, e quasi comico se pensate a quando ho parlato prima del mio rapporto con Good At Falling, è che nonostante io abbia ascoltato più volte In The End It Always Does non riesco a percepire qualcosa di più di una serie di tracce – dal buono all’ottimo – messe assieme senza quell’amalgama che permette di rendere il disco un flusso unico e di immergersi completamente nell’ambiente creato dall’artista.
Amber, cosa vuoi fare da grande?
Sulle doti di The Japanese House io di dubbi ne ho ben pochi: il suo stile unico, le sue tecniche di scrittura che alternano momenti spezzati e armonici, la sua capacità di creare un’atmosfera magica con pochi strumenti elettronici sono qualità indiscutibili.
Tuttavia, mi chiedo quale sia il suo obiettivo artistico: il suo primo album ha diviso la critica e il pubblico, perfettamente diviso tra chi lo ha amato e chi lo ha criticato, e semplificare il suo stile per renderlo più accessibile potrebbe non essere la soluzione ottimale. Amber di potenziale ne ha, eccome, ma esprimerlo al meglio sia lei che chi la segue hanno il compito di trovarle la sua identità e coerenza musicale ideale. Se ci riusciranno, avremo tra le mani (o forse sarebbe più appropriato orecchie) uno dei talenti più puri degli ultimi anni.