Sanremo

Coma_Cose, ovvero: come barattare la propria qualità per il successo

Martedì 4 ottobre 2024. Sono seduto beatamente sulla tavoletta del WC di casa mia e, come sempre, sto spulciando la bacheca di Facebook per tenermi aggiornato sulle novità del giorno. Di colpo, spunta una foto di Francesca Mesiano e Fausto Zanardelli felicemente sposati. E voi vi chiederete: “E chi caspita sono codesti?”. California e Fausto Lama – i loro due pseudonimi – formano i Coma_Cose, duo ai vertici delle classifiche estive di quest’anno con Malavita. Nel biennio 2017-2018, i Coma_Cose rappresentavano per me la punta di diamante della “scena indie” (ne avevo già parlato in questo articolo dedicato a Gazzelle) ed erano sempre in rotazione nei miei ascolti quotidiani, ma dopo di allora sono praticamente scomparsi. Vedere quella foto sul mio telefono era un po’ come scoprire che il tuo ex migliore amico ai tempi del liceo s’è accasato o ha avuto dei bambini: ti scende una lacrima di nostalgia, ma niente più. California e Fausto, come sanno tutti, formano una coppia anche nella vita privata e, di certo, il loro matrimonio non è una notizia sconcertante – semmai è l’attesa dopo tutti questi anni di fidanzamento. Tuttavia, leggendo tra i commenti del post di felicitazioni pubblicato da Sei tutto l’indie di cui ho bisogno, mi sono soffermato sulle parole di un utente: “Se ci fosse un premio per il gruppo indie maggiormente peggiorato e uniformato alla massa e stuprato dai soldi, ecco… Lo avrebbero vinto e se lo sarebbero venduto, per soldi”. E un altro ancora: “Speriamo che ora che si son sposati, e a breve non si sopporteranno più, ricominceranno a fare buona musica”. A entrambi lascio un “mi piace”, perché la voce della verità ha parlato: i Coma_Cose sono il perfetto esempio di artisti pronti a rivoluzionare la propria scena e, invece, sprofondati dalla via del successo e dal guadagno facile. Malavita, dalle sonorità estive e reggaetoneggiante, è il simbolo di tutto ciò. Per chi c’era ai tempi – e parlo di ascoltatori e frequentatori attivi della “scena indie” nel 2017 -, i Coma_Cose erano entrati di soppiatto con Cannibalismo, per poi passare all’attacco con Golgota, Deserto e Jugoslavia (li scoprii con quest’ultimo singolo). Già da questi quattro brani traspare la loro personalità, fatta di giochi di parole, da un linguaggio nuovo e da un sound fresco e completamente diverso dal resto degli artisti di quel tempo. Poi la tripletta contenuta nell’EP Inverno Ticinese (Anima Lattina, French Fries e Pakistan) ha consegnato loro le chiavi della popolarità e del successo, tanto da diventare super richiesti e da imbastire in fretta e furia un Inverno Tour (seguito, chiaramente, da un Estate Tour nel 2018). Proprio in quel 2018, più precisamente il 28 aprile, andai a vederli dal vivo al Parco d’Europa a Padova, nel contesto del Parco della Musica. Pubblico delle grandi occasioni, un grande palco tutto per loro e un’esibizione di trenta minuti – del tutto normale con poche canzoni pubblicate – che non mi aveva soddisfatto del tutto, nonostante l’entrata irrisoria di un euro (bei tempi il pre-COVID). Il mese dopo, a maggio, ebbi l’opportunità di intervistarli via mail per la defunta webzine Feline Wood. Sebbene la fredda corrispondenza non è un valido indice emotivo, da quel momento inquadrai i Coma_Cose per quello che erano: una coppia che, dopo aver cercano invano la notorietà nelle loro precedenti carriere, stava cercando in tutti i modi di cavalcare l’onda, anche al costo di risultare boriosa, estroversa e superba. Proprio per farvi sentire le mie stesse reazioni di allora, vi lascio qui l’intervista completa, premettendo che inviai due volte la serie di domande perché, a detta loro, la prima era banale – e, signori miei, non era il mio lavoro fare il giornalista, anzi… Cercai già di porre degli interrogativi quantomeno interessanti. Avete sempre detto che vi siete conosciuti in un negozio dove lavoravate come commessi e vi siete messi a parlare di musica. Però, come dice il proverbio: “tra dire e il fare c’è di mezzo il mare”, come siete arrivati concretamente a parlare del progetto Coma_Cose? Tra il dire e il fare c’è stato tanto lavoro, tante prove, tanto materiale scartato e tanta voglia di rivalsa su ciò che ci circondava. Tutto questo però è avvenuto senza forzature, con leggerezza, senza nessuna fretta, modus operandi che sta ancora alla base di come “facciamo le cose”. Vivete entrambi a Milano, ma in realtà siete originari di fuori e la vivete come degli estranei che si sono infiltrati in un mondo non loro, ma in grado di sviscerare luoghi, emozioni e particolarità che nemmeno i milanesi conoscono. Com’è lasciare tutto del proprio posto d’origine e mettersi in gioco in una nuova realtà? Perché volete proprio raccontare di come sembra per voi Milano? Perché parliamo di quello che viviamo, perché così dovrebbe essere per chi fa arte, perchè in una grande città gli incroci di vite, colori e nazionalità offrono degli spunti di qualcosa che è vivido e si fa raccontare da solo. Tu Fausto eri già un volto noto per i fan dell’hip hop, mentre California bazzicavi tra qualche rave party a Pordenone. Cosa vi portate delle vostre esperienze passate, da quali contesti musicali venite e soprattutto ci attingete qualcosa per le vostre canzoni? La musica per noi si divide in due grossi capitoli, quella “sacra” del passato e quella “profana” che appartiene al futuro, per il momento siamo molto concentrati nel crearci un presente. I vostri testi a primo impatto possono sembrare semplici, vaghi e leggeri, ma in realtà dicono molto più di quel che si possa pensare. Tutto nasce spontaneamente mentre siete fuori oppure vi chiudete in studio e buttate giù qualche idea su quello che volete raccontare? Effettivamente i nostri testi sono sempre molto ricchi di immagini, cerchiamo di procedere su più livelli comunicativi, sta poi all’ascoltatore decidere quanto vuole scavare e trovare le figure più nascoste. Tutto quello che finisce nei testi è sempre fotografato, codificato, elaborato e catalogato, poi ad un certo punto questo materiale diventa una canzone. Continuate a dire che rap

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Ghemon, un microfono e un castello: è solo “Una Cosetta Così”

Non credo di far parte della categoria degli “ossessionati” di Ghemon, o meglio: ho quattro vinili, è l’artista italiano ai vertici delle mie classifiche di ascolto su Spotify e, di certo, anche in quelle internazionali, ma non sono uno che lo idolatra in tutto e per tutto. Il primo approccio alla sua musica fu a fine 2017, quando mi innamorai perdutamente di Mezzanotte in un periodo della mia vita in cui, da “ignorante musicale”, stavo esplorando il panorama del nostro Paese. Il conseguente primo concerto che ebbi modo di assistere è stato nel lontano 23 luglio 2018 al Lumen Festival di Vicenza, nel contesto del suo Criminale Emozionale Tour – ma che bomba di canzone è? – e con appresso Le Forze del Bene, la sua band capace di rendere ancora più meravigliose le sue canzoni. In stampelle, con una frattura scomposta a tibia e perone della gamba destra (per un infortunio subito durante in una partita di calcio), mi godetti parte del live perché i miei amici, non così troppo interessati, preferirono girovagare per il Giardino Salvi. Da allora, non ho mai avuto occasione di partecipare ad un altro concerto. Perché a Vicenza – dove sono nato – non è più venuto, perché la tappa di Treviso del 2020 è stata cancellata per la pandemia di COVID-19 e le restanti di Milano – dove mi sono trasferito – coincidevano con le mie trasferte di lavoro. Finché non è arrivata Una Cosetta Così: «Non è un concerto, non è un monologo teatrale e neanche uno spettacolo comico, ma in parte, un po’ di tutto questo». Non ci ho pensato due volte e ho comprato subito i biglietti per la data del 5 aprile a Milano, al Santeria Toscana 31 situato poco distante dal mio precedente appartamento. Peccato che il giorno precedente mi ritrovo la febbre a 39°C e devo dare forfait. «Che rabbia!» pensai, e forse Gianluca ha pensato a me inserendo un nuovo spettacolo il 26 giugno al Castello Sforzesco. Tutto questo preambolo serve a far capire quante aspettative nutrivo per Una Cosetta Così, e direi che sono state ampiamente rispettate in positivo. Poco prima di salire sul palco, Gianluca lancia un messaggio audio in cui invita a usare il meno possibile i nostri smartphone, ovviamente non mancando di fare qualche battuta e strappare qualche sorriso al pubblico. Questo per non svelare tutto lo spettacolo a chi, invece, non ha ancora avuto la fortuna di viverlo – e, infatti, se fate una ricerca nel web non troverete nessuna recensione che ne approfondisce le tematiche. Quindi, di conseguenza, anche chi scrive queste righe non dirà altro nello specifico. Quello che posso dirvi è che al centro della storia è Giovanni Luca Picariello (così all’anagrafe), il rapporto con la sua famiglia, la passione per il rap, la depressione e la sanità mentale, la vita casalinga, Sanremo, la fidanzata e le maratone. Gianluca è uno storyteller perfetto, un flusso continuo di parole e racconti in grado di catturarci in ogni momento. Tuttavia, la sensazione durante le (quasi) due ore è di un progetto ancora in fase embrionale: alcuni passaggi sono troppo ripidi e scollegati, alcuni momenti risultato sottotono rispetto agli altri, così come non sono immediate le canzoni scelte e cantate come intermezzo. Ecco, forse qui risiede la mia delusione perché non è stato pescato nulla dal repertorio di Ghemon, ma le esecuzioni in sé sono state da brividi, soprattutto una “rappata” vecchia maniera. Possiamo, però, apprezzare l’evoluzione del Ghemon rapper al Ghemon cantante, il duro lavoro dietro a questa crescita musicale. Ricordiamo che lo spettacolo è stato scritto da Gianluca insieme a Carmine del Grosso, comico già visto su Comedy Central Italia e in Battute?. Sarà Una Cosetta Così, ma in realtà è stata una sfida estremamente coraggiosa e affrontata con grande spontaneità e spessore. Storia bonus: chiusi i microfoni definitivamente, mi dirigo sul palco per chiedere ai tecnici se c’è la possibilità di un autografo al vinile di Mezzanotte, che tengo in quel momento nella mia sacca. Mi rimandano all’entrata laterale del backstage, dove pongo al tastierista la stessa domanda: ricevo un clamoroso no, ovvero che dovrò aspettare un bel po’ per averlo. Nel frattempo, gli addetti alla sicurezza cacciano dalla zona coloro che non hanno un braccialetto che, scoprirò solo dopo, serve per accedere al “dietro le quinte”. Deluso e ferito, torno a casa senza nulla di desirato in mano, anche se l’unica nota positiva è aver riconosciuto Kiave (Mirko, non ti ho chiesto la foto perché mi sembrava una forma di consolazione). Probabilmente era Scritto nelle Stelle… Luca Basso

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