Recensione: The Antlers – Green To Gold

L’oro fa capolino nella copertina di Green to Gold, riempiendo gli spazi lasciati liberi dall’enorme figura di un albero verde smeraldo che si staglia davanti ai nostri occhi: il tronco grosso, i rami folti, la luce che passa solo alla base o attraverso qualche spiraglio della chioma. Balena alla mente, forse per una banale associazione di colori, l’idea del kintsugi, l’arte giapponese che consiste nel riparare oggetti in ceramica utilizzando l’oro per saldare insieme i frammenti. Questa tecnica di restauro ha anche un forte valore simbolico come rimedio per le fratture, le crisi e i cambiamenti che l’individuo può trovarsi ad affrontare nel corso della propria vita, ferite che però possono portare a una crescita interiore se curate e valorizzate in un certo modo. Di ferite da rimarginare Peter Silberman, frontman degli Antlers, ne ha accumulate a sufficienza in questi anni: la continua sensazione di essere infinitesimali al cospetto dell’universo; una “relazione psicologicamente violenta”, raccontata in maniera autobiografica in “Hospice”; acufene ad un orecchio, ipersensibilità all’altro, lesioni vocali e stanchezza fisica che lo avevano colpito tutte insieme dopo l’uscita di “Familiars”, ultima fatica della band in ordine di tempo. Proprio la malattia aveva ridotto Silberman al riposo forzato da cui era scaturito un album solista, intimo e scarnificato all’osso come “Impermanence”, diario di una guarigione fatta di alti e bassi, momenti di sollievo e ricadute, che avevano aiutato l’artista a ripensarsi e a ripensare ciò che lo circonda, facendo tesoro delle esperienze maturate. Green to Gold sembra la naturale prosecuzione del percorso musicale e personale intrapreso da Silberman nel 2006, ponendosi idealmente come la chiusura di un cerchio. È la ciclicità infatti l’elemento di lettura di un album che ha come concept principale il susseguirsi delle stagioni, metafora delle diverse fasi di una vita. Il calmo frinire dei grilli e delle lucciole accompagna l’entrata di una batteria che scandisce Strawflower, traccia strumentale che apre l’album su un giro di accordi arricchito di volta in volta dall’entrata di uno strumento nuovo, schiudendosi dolcemente come un fiore che sboccia. La voce di Silberman si insinua in Wheels Roll Home, dove il tempo è dalla parte dei giovani e il ritorno a casa è lontano, consapevoli però che prima o poi a casa si dovrà tornare. Scivoliamo lentamente in “Solstice”, che rappresenta l’apice del concept non solo in senso letterale: è il momento in cui lo splendore della propria vita è allo zenit, ma già si percepiscono ombre addensarsi all’orizzonte; tentiamo di trattenere la luce, sapendo che inevitabilmente sbiadirà da qui in avanti. Solstice è anche il manifesto musicale degli ultimi Antlers: lo sciabordio dell’acqua, come i versi di insetti presenti qui e lì nello scorrere dell’album, sostituiscono i droni e i sintetizzatori che delineavano i contorni ed erano anche l’essenza di “Hospice” e “Burst Apart”. La voce di Peter non può o non vuole più raggiungere le vette a cui aveva abituato in passato, e così il falsetto e i picchi vocali talvolta strazianti delle uscite precedenti cedono il passo a un tono soffiato, sommesso ma al contempo cristallino che segue le pieghe del brano, proprio come l’acqua si accomoda tra gli argini di un ruscello. L’esperienza da solista di Silberman, la necessaria pratica del silenzio e dell’attenzione al suono di ogni singolo strumento hanno cambiato l’approccio alla composizione degli Antlers: l’abbandono del gruppo di Darby Cicci, la cui tromba era stata la colonna portante di “Familiars”, se da un lato ha privato l’ormai duo di una certa varietà stilistica, dall’altro gli ha permesso di ripensarsi, abbracciando un suono minimalista. Si lavora per sottrazione, eliminando dalla tavolozza alcuni colori, ma combinando i restanti in maniera originale. frameborder=”0″ allowfullscreen=”allowfullscreen”> Così, i crescendo emozionali a cui ci avevano abituati non stanno più negli improvvisi muri di suono shoegaze, né nell’incedere trionfale della tromba, ma nella lenta costruzione di ogni pezzo: le pause calcolate e l’utilizzo della slide guitar in “Just One Sec”, un tocco di sassofono in “It Is What It Is”, l’ipnotico incedere dei piatti di batteria in “Volunteer”, che sembrano il tappeto di foglie su cui procediamo avvicinandoci alla fine dell’album. La tensione emotiva sale, ma non rischia mai di detonare, e nemmeno l’ascoltatore si aspetta che lo faccia. Tutto procede  in maniera controllata, come nelle intenzioni di Silberman, che voleva un album che suonasse come la musica della domenica mattina. Il rischio di un album basato su ripetizioni e piccole variazioni è che la mancanza di picchi lo appiattisca troppo, rendendo sottile il confine tra la contemplazione e la distrazione. È in ogni caso piacevole lasciarsi trasportare dalle carezze della voce di Silberman, che tra un tintinnio di chitarra e un tocco leggero di pianoforte accenna a una certa inquietudine per il tempo che passa e appesantisce (“Just One Sec”), alle protezioni che iniziano a scheggiarsi con gli anni (“Volunteer”). Così, senza che ce ne rendiamo conto, “l’estate è agli sgoccioli”, e veniamo proiettati alla fine del viaggio, nell’imbrunire di giornate sempre più brevi, pronti ad affrontare l’argento dei nostri capelli come le foglie fanno accogliendo l’oro. E mentre scendiamo a patti con l’idea di invecchiare, accogliendo con serenità chi siamo stati e come abbiamo vissuto, il pianoforte di “Equinox” sancisce la fine del viaggio. Di equinozi, in un anno, ce ne sono due: quello autunnale, che fa da preludio al buio invernale, e quello primaverile, che apre le porte al rinnovamento; che si tratti di un nuovo viaggio, o dell’inizio della sua fine, Silberman non ha dubbi: lo si affronterà con l’oro tra i nostri frammenti e la pace nel cuore. P.S. per chi volesse godere di un’esperienza a 360°, è stato girato un film che fa da sfondo all’album, dove due ballerini di danza contemporanea interpretano le scene di vita di una coppia in una cornice bucolica, che amplificano l’intensità e la dolcezza della musica. frameborder=”0″ allowfullscreen=”allowfullscreen”> Antonio Genovese VOTO

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