L’energia instancabile dei Florence and The Machine
But I hear the music, I feel the beat, and for a moment, when I’m dancing, I’m free. Una divinità scesa in terra. Una fata che qualsiasi di noi può facilmente immaginarsi in un mondo di Dungeons & Dragons. Un usignolo che tiene a bada una platea di più di 30.000 persone. Questo e molto altro è stato il concerto di Florence Welch, portavoce dei Florence and the Machine che hanno aperto il festival degli I-days all’ippodromo Snai San Siro di Milano, inaugurando così la mia stagione estiva di concerti. Non si riesce a restare estranei allo spettacolo dei Florence and the Machine, ci si resta invischiati, irretiti in una ragnatela composta da immagini e musica. Anche le grandi dimensioni del luogo, la mancanza d’intimità non spostano l’attenzione, non distraggono tanta e tale è la capacità seduttiva ed attrattiva della band e della frontwoman. Il loro concerto è un rituale che ferma il tempo e celebra la voce e la presenza di un soggetto artistico che prende vita per poi tornarsene nella sua tela. Quando Florence Welch sale sul palco degli I-days due timidi arcobaleni si mostrano prima dell’inizio dello spettacolo per poi lasciare spazio ad uno spicchio di luna sopra il poco, i pianeti si allineano: è il suo concerto, è il suo palco, è il suo pubblico. Lei fa ciò che vuole con la sua grazia e la sua voce. Non le si può rimproverare nulla (forse solo qualche balletto un po’ troppo studiato a tavolino e dall’effetto poco spontaneo) anche perché ha un pubblico fedelissimo, eterogeneo e pronto a celebrare un rito catartico durante il quale Welch non si risparmia; la sua voce è impeccabile, la sua band è precisa. Ci sono artisti che si adattano al pubblico e altri che il pubblico lo fanno entrare nel proprio mondo. Welch appartiene alla seconda categoria ed è una fuoriclasse. Ma andiamo con ordine. Una platea già scaldata a dovere dai gruppi di supporto (dalle sonorità R&B ed elettroniche dei Sudan Archives e dal soul indie rock dei Foals), si è lasciata trasportare dalla cantante inglese in una sorta di mondo ultraterreno, in una liturgia laica in cui l’officiante è proprio lei, che sa come stare sul palco e conquistare il pubblico, anzi rapirlo e portalo nei diversi mondi musicali, emotivi e sonori che, in compagnia della band, solo lei sa creare. Anche la scenografia lo ha testimoniato: piedi nudi sul palco, un vestito “svolazzante” che è diventata parte scenica dello spettacolo, fiori e ghirlande shakespeariani, capelli rossi al vento e sullo sfondo un tavolo (forse un altare) con dei candelabri e delle croci ricoperte da degli stracci bianchi hanno ha creato un’atmosfera cupa e mistica. Una donna tra l’umano e il divino, non c’è dubbio (così come il caldo umido che ha fatto da sfondo all’intera serata d’altronde). Ogni mio dubbio è stato però chiarito dalla canzone di apertura del concerto Heaven is here. Il concerto ha finalmente avuto inizio e i fan hanno acclamato la loro dea come se tutti fossero pronti a sacrificarsi per lei, come d’altronde confermato dalle parole che vengono urlate in coro: Oh bring your salt, bring your cigarette. Draw me a circle and I’ll protect. Heaven is here if you want it Un rituale ha dato inizio alle danze (letteralmente) e anche io credo di aver versato la mia personale dose di patto di sangue grazie alla moltitudine di zanzare presenti con noi quella sera. Il tour Dance Fever ha così preso il via facendo percepire subito tutta l’energia e la carica dell’intera band grazie all’inno femminista King, alla potenza di Ship to Wreck e alla celebrazione alla vita Free che hanno fatto smuovere tutta la platea; tutto è diventato ancora più chiaro con Dogs Days are Over dove, il rituale riproposto ad ogni concerto di Florence, è stato ancora più potente. Dopo anni di distanze e assenze, di lontananze dettate dalla pandemia, la cantante ha invitato tutti ad abbassare i telefoni e ad abbracciarsi più forte che mai, manifestando il proprio amore in un salto collettivo in corrispondenza degli ultimi ritornelli della canzone: when I say run, I need everyone to jump high as they can! Florence, instancabile, ha percorso il palco cantando, sussurrando, parlando con il pubblico che ha risposto bene alle sue sollecitazioni e richieste. È scesa nel pit cercando coraggiosamente il contatto fisico con il suo pubblico e restando lì per lungo tempo ad accarezzare e farsi accarezzare. All’improvviso ci si è ritrovati catapultati in un mondo simil Midsommar che senza neanche farlo apposta ha coinciso con l’anniversario della celebrazione del solstizio d’estate. Come non approfittarne per regalare al pubblico una versione della magnifica June. Immancabili poi le versioni di You’ve got the Love, Shake It out, Cosmic Love e una versione totalmente inaspettata di Never Let me Go dopo dieci anni di assenza dai palchi. La finale Rabbit Heart (Raise it Up) ha chiuso lo spettacolo permettendo al pubblico di liberare le ultime energie rimaste e di scaricare tutti i propri cattivi pensieri e preoccupazioni godendosi a pieno il momento. Che dire quindi. La Welch, sempre in lotta con le sue debolezze nei testi della sua musica, ha esorcizzato il tutto con una personalità magnetica e con una voce potente, virtuosa, senza interruzioni e senza perdere per un attimo la forza in quel canto quasi liberatorio. Sempre in bilico tra oscurità e luce, tra drammatico ma al tempo stesso romantico e intimista che tocca l’anima e il cuore, rimane una delle poche persone in grado di farmi commuovere. Florence, you’re a gift. Francesca Muscio
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